Per trent’anni la guerra è stata innominabile. Per quanto si facesse largo abuso della parola in contesti impropri (guerra alla droga, al crimine, al terrore), alle guerre in senso stretto erano imposti appellativi molto più suadenti: dalla «operazione di polizia» lanciata dalla coalizione a guida americana contro l’Iraq nel 1991 fino alla «operazione militare speciale» con cui la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina nel 2022. Due espressioni quasi identiche, tra le quali intercorre però una distanza siderale. Coniata all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica, la prima formula annunciava la promessa del «nuovo ordine globale» ispirato al neoliberalismo, che puntava sull’integrazione dei mercati, l’espansione della democrazia e la difesa dei diritti umani. La seconda, al contrario, battezza un’iniziativa diametralmente opposta che, insieme all’esplosione del conflitto tra Hamas e Israele, di quella promessa sembra oggi sancire il tramonto.
A CONFERMA DI UN SIMILE rovesciamento, la guerra si ricomincia non certo a praticarla (perché quello non si era mai smesso di farlo) ma a chiamarla per nome, attestando così che nell’ordine che si è andato di fatto costruendo in questi trent’anni – quello vero, non quello idealizzato dalla propaganda – il più distruttivo dei conflitti ha acquisito in realtà un posto di primo piano. Diversamente da un passato anche recente, la guerra non si presenta più come un’interruzione catastrofica della normalità. È ormai a sua volta qualcosa di normale: una specie di disturbo cronico destinato a durare a tempo indefinito, che colpisce i civili molto più dei belligeranti in senso stretto e che, dietro la maschera dell’ostilità guerriera, lascia a tratti trapelare una paradossale complicità tra le parti in conflitto, interessate ad assicurarsi il controllo totale sulle risorse e sulle vite all’interno del proprio campo molto più che a riportare un’improbabile vittoria definitiva sul campo avverso.
Sono tanti i motivi per cui il sogno del nuovo ordine liberale ha generato una realtà così vicina all’incubo. Un confronto elementare tra le promesse e la realtà dei fatti aiuta a coglierne almeno i più vistosi. In primo luogo, sulla carta, il nuovo ordine prometteva un confronto alla pari tra attori globali non più nemici benché ancora concorrenti, sul modello della competizione di mercato regolata dal diritto. All’atto pratico però a uno solo dei concorrenti, gli Stati Uniti d’America, era riservato un privilegio strutturale sia in campo economico – data la centralità del dollaro nel sistema monetario – sia in ambito militare. Gli Stati Uniti agivano insomma tanto da giocatore quanto da arbitro, generando un diffuso rancore tutte le innumerevoli volte in cui l’equilibrio generale veniva piegato agli interessi nazionali americani. Per di più, l’ambizione globale del progetto riduceva implicitamente qualunque oppositore radicale a una specie di nemico pubblico, un bandito spogliato di ogni legittimità politica, col risultato paradossale di rendere la scelta terroristica una via quasi obbligata per qualunque opposizione al potere consolidato.
Infine, il ruolo di collante attribuito agli scambi di mercato rifletteva la convinzione che un mercato libero tendesse spontaneamente a rafforzare la democrazia, rendendo le scelte politiche sempre più dipendenti dalle preferenze espresse dalla società civile tanto nel voto quanto nei consumi. Un’illusione platealmente smentita dall’evidenza che il dominio dei mercati, lasciato a sé stesso, tende invece a svuotare del tutto la società civile, sbriciolandola in una massa atomizzata e impotente, alla mercé delle tecniche capillari di controllo esercitate dai monopolisti del denaro e del potere. E la rabbia che fermenta in una tale massa nutre oggi le milizie delle nuove guerre.
In un quadro così critico, la voce di un movimento globale in difesa della giustizia e della pace ha chiaramente un peso decisivo. È perciò tanto più scoraggiante dover constatare che, nei trent’anni trascorsi, quella voce si è fatta più flebile e impotente. All’epoca della seconda guerra in Iraq, le manifestazioni per la pace ebbero un tale impatto da far scrivere al New York Times che il movimento per la pace era ormai l’unica altra superpotenza globale accanto agli Stati Uniti.
OGGI, DI FRONTE AL SOVRAPPORSI di due conflitti molto più devastanti, quel movimento appare invece così indebolito da lasciarci tutti attoniti e impotenti, mentre assistiamo in diretta al susseguirsi quotidiano degli orrori. A generare la paralisi non è un deficit di impegno collettivo ma un problema politico profondo, che va affrontato a viso aperto per avere qualche speranza di superare la crisi. Il nodo cruciale è che, per quanto sia cresciuto come alternativa critica al progetto di globalizzazione neoliberale, il movimento per la pace non ha potuto fare a meno di condividerne alcuni presupposti, ritrovandosi per questo a condividerne anche l’attuale crisi. Come movimento di massa non violento, mirava infatti a esercitare una forma di soft power sulle coscienze e la ragione pubblica. Era quindi efficace solo in contesti democratici, nei quali il potere politico poteva essere tenuto sotto scacco da un’opinione pubblica libera e combattiva. Sia pure con spirito critico, tendeva così a condividere la stessa speranza che animava in fondo il progetto neoliberale: che la crescente interdipendenza economica avvicinasse tra loro i popoli della terra, rafforzando la democrazia e favorendo la crescita di una società civile globale. In una realtà che a simili speranze lascia ben poco spazio, occorre un salto di qualità per non soccombere, fermo restando che, per un movimento pacifista, la scelta non violenta resta fuori discussione.
L’ATTIVISMO HA MOSTRATO comunque che, in contesti di aperta ingiustizia, la non violenza può affiancare con successo le forme di resistenza collettiva, anche se a praticarle non è una società civile ma una massa indisciplinata e rancorosa. È quanto hanno sperimentato negli ultimi anni i gruppi di attivisti internazionali (anche israeliani e americani) che in Cisgiordania hanno protetto i villaggi palestinesi dagli assalti dei militari e dei coloni: non a caso una forma di solidarietà aspramente combattuta tanto da Hamas quanto dal governo di Israele. È un esempio prezioso, che mostra come si possa trasformare un movimento essenzialmente umanitario in un vero movimento politico, benché a unirlo non sia la fedeltà a una polis, uno stato o un popolo particolare, ma la comune appartenenza all’umanità in quanto tale.
Fonte: Il Manifesto del 29 dicembre 2023