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Ministro della Pace

Una delle tante lezioni da trarre dalle guerre recenti, mi sembra questa: come ogni stato ha i suoi ambasciatori, oltre le spie, così dovrebbe avere un "avvocato dell'avversario", col compito di cercare, ascoltare, sostenere, nei conflitti acuti, le ragioni dell'avversario. Oltre il ministro della difesa (che pensa ancora la difesa soltanto in termini armati, militari), ci vuole il ministro della pace. Era questa la proposta di Aldo Capitini nel marzo 1948 (Cfr Aldo Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Cappelli, Bologna 1990, pp. 15-16 e Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1989, p. 102) e il suggerimento di Tullio Vinay nel febbraio 1977 (Cfr T. Vinay, L'utopia del mondo nuovo. Scritti e discorsi al Senato, Claudiana, Torino 1984, p. 285). Un tale ministro sarebbe incaricato di tenere aperta, e riaprire sempre, la ricerca dialettica e autocritica della verità e giustizia nelle controversie, con esclusione delle soluzioni violente, come impongono l'art. 11 della Costituzione e la Carta dell'Onu.

Questa istituzione, acquisita nella tecnica giudiziaria (anche il peggiore colpevole ha diritto alla difesa; la logica del ragionamento giudiziario ha bisogno dell'"avvocato del diavolo" previsto nel diritto canonico), è stata finora esclusa dai conflitti politici tra stati, rimasti alla fase primitiva in cui ognuna delle parti si pretende assoluta. Anche in assenza di un Terzo che imponga e garantisca la pace con la forza (necessario nel pensiero di Hobbes per le relazioni interne e di Bobbio per quelle esterne), la pace (cioè la gestione dei conflitti in forme non distruttive) può essere assicurata, meglio ancora che dal Terzo superiore, dal relativizzarsi di ogni parte, dal riconoscimento essenziale dell'altro. Infatti, lo spirito di guerra è, nella sua essenza, il disconoscimento dell'umanità dell'avversario, che lo trasforma in nemico totale e fonda il diritto (necessità, dovere, merito, gloria) di ucciderlo.

La guerra può essere superata, oltre che sul piano etico profondo (l'altro è, col suo solo essere, il fondamento del mio obbligo di rispettarlo e favorirlo, che mi vieta di distruggerlo in caso di contrasto), col rendere giuridico il conflitto. Essere un soggetto in una unità giuridica, in un sistema di regole per convivere, consiste nel riconoscersi parte di un insieme, nel sapere di non essere tutto. Questa unità morale e giuridica è, in modo intero, la famiglia umana completa. Gli stati ne costituiscono delle parti che si sono fatte ciascuna un tutto.

L'"avvocato dell'avversario" avrebbe la funzione di rappresentare l'altro all'interno di una parte che, nel conflitto, entra in un delirio di totalità. Infatti, la stessa idea di sovranità assoluta che costituisce gli stati moderni, è fattore di guerra, è belligena. La realtà storica dell'interdipendenza smentisce e corregge oggi, provvidenzialmente, questa pretesa. D'altra parte, alla durezza degli interessi iniqui e privilegiati, si aggiunge oggi l'ondata di nazionalismi, di nazioni che si induriscono in stato. Ciò indica che coscienza e cultura non sono adeguate al movimento reale di unificazione della famiglia umana.

Occorrono istituzioni rappresentative dell'altra umanità, fuori da questo particolare stato, così come, nonostante i molti difetti, le istituzioni democratiche rappresentano ad ogni cittadino i diritti degli altri cittadini entro la porzione di umanità compresa in questo stato. Si potrebbe attribuire un vero ruolo politico interno agli ambasciatori degli altri popoli e stati (specialmente dello stato con cui si è in conflitto), o all'autorità delle Nazioni Unite, e questo sarebbe il meglio, oppure si può assegnare ad un organo dello stato il compito di rappresentare interessi e punti di vista dell'avversario. Non c'è altro modo di fare la pace, quella che sta al posto e non al termine della guerra. Questa seconda, infatti, non è pace, ma volontà del vincitore imposta al vinto, è lo scopo stesso della guerra, altrettanto distruttiva, foriera di altra guerra, e non alternativa ad essa.

Che cosa accade invece ora? Quando il conflitto si fa acuto, si scatena la "propaganda di se stessi" da ognuna delle parti: la prima vittima è la verità, l'ascolto dell'altro; l'informazione viene gonfiata e insieme distrutta, perché vero e falso si confondono, diventano indistinguibili; così l'umanità viene massacrata dentro le persone, tanto nei sopravvissuti come negli uccisi. Oggi è tecnicamente possibile la comunicazione universale immediata, quindi è possibile che il conflitto resti umano e gli uomini non si facciano sostituire dalle armi, idolo che esige sacrifici umani e decide nel modo più irrazionale e ingiusto.

E' necessità della vita e della dignità lavorare con forte iniziativa, anche unilaterale, per giuridicizzare il conflitto militare. L'obiettivo pieno non può essere altro che la scomparsa del rapporto militare, con tutto il suo apparato e la relativa mentalità, tragicamente tornata in auge. I passi saranno parziali, ma quella è la meta. Nulla di meno.

Enrico Peyretti

(Rocca, 15 marzo 1992) (ora in Enrico Peyretti, La politica è pace, Cittadella. Assisi, 1998, pp. 46-49, qui riprodotto con lievi ritocchi e integrazioni)