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Noi e l'Islam: l'incontro mancato (Branca Paolo)

Pubblicato su Dialoghi, n. 2, giugno 2006)

Non soltanto nei libri di Oriana Fallaci, purtroppo, ma anche in quelli di Giovanni Sartori, ci imbattiamo nell'immagine dei musulmani presentati come nemici irriducibili coi quali non ci sarebbe alcuna possibilità di intesa. Sono testi che danno voce a un disagio reale, legittimamente diffuso nell'opinione pubblica e acutizzatosi a causa dei timori collegati al fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica.
La domanda non è dunque peregrina e merita di essere attentamente presa in considerazione: davvero non vi sono forme praticabili di coesistenza tra due antiche tradizioni culturali e religiose in un'epoca nella quale esse si trovano a vivere una crescente intensificazione di contatti? Che quest'ultima comporti problemi e che non siano né pochi né di scarso rilievo i rischi che la gestione di un simile fenomeno porta con sé è del tutto evidente. Ma proprio qui sta il punto. La domanda essenziale che dobbiamo porci, a mio avviso, è appunto se il multiculturalismo sia un fenomeno gestito o semplicemente subito, di fronte al quale prevalgono atteggiamenti comunque inadeguati. Non ci vuol molto ad accorgersi infatti che, come contraltare della posizione demonizzante appena ricordata, l'atteggiamento più comunemente diffuso è quello del relativismo o, per dirla in modo più chiaro, dell'indifferenza. Se l'islamofobia è più rumorosa e facile a diffondersi sia a motivo di persistenti pregiudizi sia in forza di effettivi problemi, non meno dannoso è il concordismo facilone di quanti si illudono che la mediazione avverrà da sé, spontaneamente, con tanta maggiore agilità quanto più saremo capaci di rinunciare a simboli e a valori tradizionali per sederci concordi all'effimero tavolo del benessere materiale. Che gli esseri umani si stiano mischiando è un fatto, molto meno sicuro è che le culture si stiano incontrando. La presenza tra di noi di un folto gruppo di uomini che appartengono all'islam è segno di un'evoluzione generale del nostro pianeta verso livelli di integrazione sempre maggiori che propongono in forma inedita le questioni relative al rapporto tra differenti tradizioni religiose e culturali le quali si mostrano sempre più evidentemente intrecciate, ma al tempo stesso destinate ad affrontare più direttamente, date le distanze ravvicinate, i problemi sollevati dalla loro diversità. Si tratta di sfide non prive di salutari provocazioni e spunti di riflessione per ciascuno dei due protagonisti. La condivisione della vita quotidiana con chi ha una forte caratterizzazione religiosa, ad esempio, potrebbe indurci a riflettere sul ruolo che la fede e l'etica possono ancora giocare a livello sociale, senza accontentarsi di rimanere nell'ambito del mero "privato".
Non molto tempo fa, uno dei maggiori quotidiani italiani, in occasione della disputa relativa a un tunnel che corre nei pressi della spianata del Tempio di Gerusalemme e alludendo alla sacralità di alcuni luoghi venerati sia dagli ebrei sia dai musulmani, ha messo in relazione la "tomba di Giuseppe" con... il padre di Gesù! Il fatto che un giornalista che si occupa di Medio Oriente possa incorrere in un simile errore dimostra clamorosamente quanto sia necessario tornare a diffondere conoscenze di base non soltanto tra i profani, ma perfino presso alcune categorie di "addetti ai lavori". Ormai non possiamo più contare né su reminiscenze bibliche né, a quanto pare, sul supporto di quella che una volta si chiamava "cultura generale" (basti pensare al romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, per rimanere all'esempio citato).
Se qualcosa possiamo imparare, non è meno vero che abbiamo anche non poco da proporre. Di fronte a una simile situazione, carica certamente di tensioni ma non priva di stimolanti opportunità, risulta evidente l'inadeguatezza di ogni visione che si limiti a paventare i pericoli di un Europa cristiana e civile assediata dai nuovi barbari del fondamentalismo musulmano. Anzitutto bisogna tener presente che l'integralismo religioso interessa solo una minoranza di islamici, anche se si tratta purtroppo della sola che riesca a far parlar di sé, rivendicando illegittimamente la rappresentanza di tutti gli altri. D'altro canto, neppure gli stessi paesi europei od occidentali sono riconducibili a un medesimo modello. A differenza di altri, l'Italia è un paese sostanzialmente sprovvisto di forti "paradigmi" etnico-culturali (come la Germania) o ideologici (come la Francia) che facciano decisamente pendere il pendolo verso l'assimilazione dei nuovi arrivati. Avremmo dunque, in teoria, alcuni vantaggi nello sviluppare una politica d'integrazione efficace. Nella maggior parte dei casi, invece, ci limitiamo a darci da fare per risolvere questioni concrete, come quelle legate alle prime necessità degli immigrati. Ancor più grave è la nostra tendenza a concentrarci sulle situazioni di emergenza, a reagire superficialmente quando scoppi un caso legato a fatti di cronaca o alle prese di posizione di questo o quel personaggio, spesso indebitamente sovradimensionato dal sensazionalismo dei media. Una visione di più ampio respiro e di maggiore ambizione sembra mancare, nonostante i fiumi di parole spesi in convegni e dibattiti sul multiculturalismo che lasciano generalmente il tempo che trovano. Sembra quasi che la nostra tradizione culturale non sia uno degli elementi in gioco e, duole riconoscerlo, non tanto per un presunto disinteresse e una pretesa indisponibilità dei nostri interlocutori, quanto per la nostra carente consapevolezza di noi stessi. Si finisce così per ridursi a chiedere, nei fatti, a chi sbarca sulle nostre coste, di dimostrare la propria volontà di integrarsi più condividendo i nostri gusti gastronomici o le nostre passioni calcistiche che recependo i non pochi valori che ci derivano dall'antichità classica, dalla tradizione cristiana o dall'evoluzione politica e civile dell'Europa moderna.
L'immagine che ci facciamo dei nuovi arrivati è spesso un esito dell'impressionante ignoranza che sta dilagando. Qualche anno fa, capitava abbastanza spesso che le trasmissioni della televisione italiana fossero inframmezzate da spot pubblicitari che reclamizzavano l'Egitto come meta ideale per viaggi turistici. Le stupende immagini delle coste del Mar Rosso si alternavano a quelle delle piramidi e dei resti archeologici dell'epoca faraonica, come pure a quelle della cittadella del Cairo o di altri famosi monumenti islamici. Dopo l'11 settembre 2001, non solo in Egitto, ma in tutto il Medio Oriente, il turismo ha attraversato un brutto momento e gli spot televisivi si sono a lungo interrotti, per riapparire di recente pubblicizzando però solamente le località balneari sotto lo slogan Red Sea Riviera!
Non è difficile capire il motivo contingente di tale cambiamento, ma è lecito chiedersi se questo fenomeno non sia anche una segnale preoccupante di portata più generale. La società moderna è caratterizzata dalla diffusione su larga scala di una gran quantità di informazioni, talmente abbondanti da renderne quasi impossibile la ricezione da parte dei destinatari. Sarebbe interessante farne un'analisi quantitativa e qualitativa e non mancano alcuni studi che già si muovono in tal senso. Credo che si possano imparare molte cose anche riflettendo su quello che manca, sulle informazioni cioè che non vengono date o che rimangono accessibili soltanto a pochi. Questa assenza è spesso significativa e diventa di capitale importanza quando si tratta di paesi, tradizioni e culture differenti, poco note nei loro dettagli al di fuori di ristrette cerchie di specialisti. Se dal campo del turismo passiamo a quello dei libri, possiamo constatare qualcosa di analogo e per certi versi sorprendente. Su di un sito internet specializzato, una ricerca di volumi aventi come soggetto l'Egitto, mi ha fornito tempo fa una lista di 315 titoli. Non sono rimasto troppo stupito paragonando questo dato ai 1285 titoli trovati sul sito francese www.amazon.fr o agli 8079 trovati sul sito americano www.amazon.com. poiché i lettori francofoni e anglofoni sono più numerosi di quelli italiani. La cosa che mi ha sorpreso di più è stata l'analisi qualitativa del risultato della mia ricerca: si trattava infatti quasi esclusivamente di libri riguardanti l'Egitto dei Faraoni o di guide turistiche, mentre non ho trovato nessun libro relativo all'Egitto moderno. Se pensiamo che l'Egitto è uno dei più importanti paesi arabi e il più popoloso non possiamo che constatare quanto grave sia la situazione.
Si parla tanto di globalizzazione e il tema dell'incontro tra differenti culture e civiltà è tra i più discussi in occasione di conferenze e convegni, ma gli strumenti di base necessari alla conoscenza del mondo arabo, della sua realtà e della sua storia come si vede scarseggiano. Facendo infatti una ricerca analoga a proposito di altri paesi arabi, come la Giordania e la Siria o come la Tunisia e il Marocco, l'esito non cambia di molto. Fortunatamente non mancano invece titoli concernenti il mondo arabo nel suo complesso o alcune tematiche specifiche, come la questione palestinese, ma molto resta ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l'epoca contemporanea. Ad essa, nonostante la sua importanza, sono dedicate proporzionalmente meno attenzioni rispetto ai periodi precedenti. È un antico vizio dell'orientalismo, che spesso privilegia il passato a scapito del presente, lasciando quest'ultimo ai sociologi quando non ai soli giornalisti.
Eppure, nelle nostre città, la presenza di molti immigrati arabi è tutt'altro che irrilevante. Nella sola Milano vi sono numerosi centri islamici e gli egiziani sono numerosissimi, i soli copti vi hanno più di una chiesa, un vescovo e un convento di monaci: si parla di migliaia di persone che si trovano fra noi ormai da molti anni, i cui figli frequentano le nostre scuole e che spesso gestiscono negozi e ristoranti nei quali gli italiani si recano regolarmente. Le prime pagine dei nostri giornali, poi, sono quasi quotidianamente occupate da articoli che hanno a che fare con il Medio Oriente e il mondo arabo-musulmano. È naturale che tali articoli riguardino soprattutto eventi politici e fatti di cronaca. Non è infatti compito della stampa approfondire e fornire sistematicamente ragguagli storici o altri dati che sono tradizionalmente reperibili in pubblicazioni di genere differente. Il fatto è che queste ultime sono ancora insufficienti o, per certi aspetti, mancano del tutto, così chi desidera saperne di più deve purtroppo rivolgersi alle biblioteche, dove per fortuna non mancano alcune opere anche di ottimo livello, ma ormai non più reperibili sul mercato, e nei casi peggiori ci si deve documentare attraverso libri in altre lingue: soprattutto inglese e francese. Se poi parliamo di testi specialistici da consultare per approfondimenti, la conoscenza di queste due ultime lingue diventa indispensabile, per cui la prima domanda che faccio agli studenti che vogliono fare una tesi di laurea è appunto quella relativa alla loro padronanza di almeno una delle due lingue citate. Eppure, non sono molto lontani i giorni in cui lo storico Toynbee definì la rivista Oriente Moderno, pubblicata dall'Istituto per l'Oriente di Roma, «la migliore rivista orientalistica del mondo». Era l'epoca di Carlo Alfonso Nallino, anni in cui l'Italia evidentemente credeva di più al proprio ruolo di paese geograficamente e culturalmente privilegiato nei suoi rapporti con il Medio Oriente e il Nordafrica, favorita in tal senso anche dalla sua minore implicazione nel fenomeno del colonialismo rispetto ad altre nazioni europee. Vi sono interi settori che attendono adeguati interventi, come (per fare soltanto un esempio) quello scolastico: la presenza di molti studenti di origine extra-europea da una parte richiede e dall'altra favorisce una diversa impostazione dello studio di materie quali la geografia, la storia, la letteratura e l'arte. Sono ancora insufficienti adeguati materiali e testi che possano essere utilizzati dagli insegnanti per affrontare in chiave interculturale simili materie, che pure nell'area del Mediterraneo hanno sempre visto interagire popoli di differenti lingue, culture e tradizioni religiose. Più in generale, segnalo l'esigenza che i bambini arabi nelle scuole italiane mantengano la conoscenza delle proprie lingua e cultura, apprendendo contemporaneamente le conoscenze che permettano loro di integrarsi con successo nel nostro paese. È evidente che un simile compito non può essere lasciato alla sola buona volontà dei singoli insegnanti, ma richiede un intervento delle istituzioni culturali arabe e italiane che va organizzato presto e ben pianificato. Il campo d'intervento è dunque immenso e attende solo che con coraggio e fantasia si cominci a lavorare insieme. Un esempio eloquente può essere quello della tanto chiacchierata "scuola islamica" di Milano, che vale la pena di riassumere in breve.
Una quindicina di anni fa nasceva presso l'Istituto Culturale Islamico di viale Jenner una scuola araba autogestita che preparava i bambini agli esami presso il Consolato egiziano. Come tutti gli emigrati, i loro genitori sognavano di tornare presto nel proprio paese d'origine e quindi si preoccupavano per il futuro dei loro figli, una volta tornati in patria. Si trattava però di un calcolo sbagliato: la stragrande maggioranza di loro erano destinati a rimanere in Italia. Intanto gli alunni crescevano di numero, tanto da richiedere il trasferimento in una nuova sede, quella di via Quaranta, dove i frequentanti sono arrivati col tempo a quasi 500. Fino a quattro anni fa l'insegnamento si svolgeva esclusivamente in arabo. Solo l'intervento di mediatori culturali li ha indotti ad apprendere almeno un po' d'italiano, ma comunque la natura giuridica del centro rimaneva il grande nodo da sciogliere. L'inerzia ha purtroppo prevalso sia da parte loro sia da parte delle istituzioni. Si è così giunti alla chiusura per motivi igienico-sanitari, tardiva e intempestiva: a pochi giorni dall'inizio del nuovo anno scolastico. Le istituzioni stanno facendo un grande sforzo per rimediare, offrendo l'inserimento nella scuola pubblica dove vengono garantiti corsi di lingua e cultura araba in appositi orari e fornendo le necessarie informazioni per la costituzione, in alternativa, di una scuola paritaria secondo le normative vigenti. Dopo tanti anni non sarà facile convincere alcuni che la legge va rispettata perché è una garanzia di qualità e non uno strumento di repressione. Eppure non c'è altra via: una democrazia è sana e robusta quando premia le pratiche migliori, non quando si mostra debole e indifferente, lasciando correre, magari in attesa di qualche sanatoria.
A parte qualche caso clamoroso come quello appena citato, temo che generalmente prevalgano gravi carenze che ci condannano all'inerzia, costringendoci a subire l'iniziativa altrui. Iniziativa che spesso viene condotta da sedicenti e improvvisati rappresentanti di un islam bizzarro (come nel caso di non pochi convertiti) o comunque inadeguato a raccogliere le sfide e soprattutto a cogliere le opportunità che la sua dislocazione in Occidente potrebbe provvidenzialmente offrirgli. Il confronto con l'altro è spesso l'occasione per guardarsi allo specchio. Se avremo il coraggio di farlo, scopriremo che la povertà delle nostre proposte ha soprattutto in noi stessi le proprie radici.