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Non avrete il mio odio

“Non avrete il mio odio”. È questo il titolo della lettera aperta scritta da Antoine Leiris, un uomo che ha perso la moglie in uno degli attentati di Parigi venerdì sera. Sono parole diverse, nuove, che non si lasciano contaminare dall’odio o dalla sete illimitata di vendetta con cui l’essere umano tende a rispondere all’altro in questi casi. Nel suo appello, Antoine, aggiunge “Insieme – lui e suo figlio N.d.A. – siamo più forti di tutte le armate del mondo”. Non si lascia schiacciare dalla paura, non incita alla violenza cieca e acefala con cui l’uomo si fa avanti per abbattere la differenza dell’altro: questo è un vero grido di speranza, un nuovo modo di costruire l’orizzonte delle possibilità, un’apertura sul mondo.

In questo scenario l’Europa sta trovando la forza di nascere da premesse forcaiole, sta trovando la forza del proprio nome in una coalizione che, per definizione, prevede sempre un nemico abbandonando l’idea di un’alleanza che, al contrario, ha come finalità il progresso e il riconoscimento dell’altro. Questa contemporaneità assomiglia sempre più al quadro “De parabel der blinden” del fiammingo Bruegel dove ciechi guidano altri ciechi lungo una scarpata senza scampo. Questo viviamo: ciechi che guidano altri ciechi. Odio che produce odio. Domande che non producono risposte, grida che non muovono ascolto e tolleranza ma solo altre urla di vendetta.

A domande mal poste seguono risposte inadeguate, perciò iniziamo a domandarci: Quanto stiamo investendo per gli armamenti? Quanto per la cultura? Quanto ci stiamo impegnando per promettere un futuro degno alle nuove generazioni? Cosa stiamo lasciando in eredità ai nostri figli? Quali tracce e quali segni gli stiamo depositando? Se è vero che ogni epoca si misura e si ricorda in base all’azione che muove, alla cultura che produce e alla storia che crea allora stiamo piantando un seme che darà frutti amari. Nel suo libro “La morte del prossimo”, Zoja, ci introduce al concetto della perdita della curiosità da ciò che si allontana da noi, da ciò che il nostro contesto non prevede, come se nel nostro tempo si fosse fatta spazio l’idea che il “diverso” sia sempre un pericolo, una minaccia, un’ospite inquietante. Dobbiamo incarnare un altro modo di abitare le relazioni, un altro modo di rapportarci all’altro riscoprendo parole come ascolto, desiderio, differenza, fratellanza, particolarità, amore.

Qualche giorno fa un paziente, o meglio “sofferente” come suggerisce Lacan, mi ha posto questa domanda: “Ma non sarebbe meglio se i nostri aerei lasciassero cadere libri e caramelle sulla popolazione siriana invece che dei missili?”. Questa apertura verso una nuova possibilità, che supera la violenza a favore della speranza e della trasmissione del sapere è ciò che porto dentro di me, dove nel mio spazio più intimo riconosco all’altro la possibilità di esistere, anche se diverso da me. Non esistono risposte a certe utopie, l’unica certezza consiste nel continuare a non reagire con una chiusura, dimostrando che l’Europa affonda le proprie radici nei codici di una comunità pacifica e con l’orecchio proteso alla parola dell’altro.

“Non avrete il mio odio” scrive Antoine Leiris, ebbene, unendomi a questo appello aggiungo “Non avrete neanche il mio”.

Un pensiero di Gianfranco Bontempi, psicologo