(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1318 del 6 giugno 2006)
Mi sono avvicinato alla nonviolenza dal 1972, quando, a 25 anni, ho cominciato a capire, durante un convegno nazionale semi-clandestino di Lotta Continua a Rimini, il suicidio umano e culturale della prospettiva della "guerra di popolo", tipo Irlanda del Nord (Ira) o Paesi Baschi (Eta), che veniva proposta con sempre maggior insistenza da una buona parte del gruppo dirigente, forzando in senso insurrezionalista la lettura delle lotte di quegli anni (dai cortei della Fiat del '69, alle barricate delle imprese d'appalto di Marghera del '70, alle lotte dei carcerati e dei soldati, fino ai moti per Reggio Calabria capoluogo di regione). Così Lotta Continua tendeva ad assumere (ma per fortuna si è sciolta prima) i connotati di un partitino leninista, gerarchizzato, con un "servizio d'ordine" numeroso ed aggressivo, tradendo l'ispirazione anti-autoritaria e spontaneista (alla Rosa Luxemburg) con cui l'avevamo costruita anche a Venezia e Marghera nell'autunno del 1969. Sono partito da questa vicenda personale, perché credo che, nella seconda metà del '900 in Italia si siano abbondantemente sprecate le due più importanti esperienze di rinnovamento "politico" nate dopo la stagione dei Cln del 1943-'46: l'anti-autoritarismo del '68 e l'ambientalismo degli anni '80.
L' "arcipelago verde" ha compiuto una parabola diversa da quella di Lc, ma simile nella sostanza: è nato nel giugno 1981, come coordinamento di gruppi ed associazioni locali che (dalla fine degli anni '70) agivano sui temi della mobilità ciclabile, alimentazione sana e agricoltura biologica, nonviolenza e antimilitarismo, riduzione e riciclo dei rifiuti, difesa dei consumatori, animalismo, antinucleare e promozione delle energie e tecnologie "dolci" e, in generale, diffusione di una cultura ecologista e nonviolenta. Sono nate le prime Università Verdi (Università popolare di ecologia a Mestre nel 1982 e poi, dal 1983, altre decine), i primi Amici della bicicletta (Firenze), le prime riviste ecologiste (Smog e dintorni a Venezia, Azione nonviolenta di Verona, Aam-Terra Nuova di Firenze, i Quaderni di Pistoia, la Malaerba a Pescara ecc.), le prime trasmissioni ambientali alle radio libere (da Radio Cooperativa di Mestre a Radio Irene di Comiso, in Sicilia), i nuovi gruppi nonviolenti della Loc, quelli di Tra la gente di Cesena e dintorni, e così via. Si è dato vita anche ad una agenzia stampa quindicinale, si chiamava "Arcipelago verde", appunto, ed era curata da ecologisti milanesi, con sede presso il Wwf locale; ci si incontrava ogni due mesi circa a Bologna in sale dei quartieri, e si decidevano assieme iniziative comuni. Senza rapporti gerarchici di alcun tipo; si trattava, insomma, di quella che oggi si chiamerebbe Rete.
Nel 1983 alcuni gruppi locali hanno presentato a Mantova, Trento, Viadana (dove volevano costruire una centrale nucleare) ecc. le prime Liste Verdi; l'esperienza era quasi sempre molto positiva, con forte partecipazione popolare, apertura delle istituzioni locali all'informazione pubblica, controllo degli eletti con frequenti assemblee, impegno alla rotazione negli incarichi.
Nel 1984 l'arcipelago verde ha convocato la prima assemblea nazionale a Firenze sull'ipotesi di presentare, l'anno successivo, Liste Verdi in molte città e regioni d'Italia. E subito si sono cominciate a vedere le prime manovre "romane", per omologare, imbrigliare, gerarchizzare il movimento ancora in fase nascente. Arrivano le segreterie nazionali delle associazioni ambientaliste che si erano messe d'accordo per creare una dirigenza nazionale: Legambiente (Mattioli e Scalia), Wwf (Amendola) e Amici della Terra (Signorino, Rosa Filippini e, dietro a loro, Pannella).
Il processo (nonostante la resistenza di Alex Langer, mia, di Mao Valpiana, di Giannozzo Pucci e di molti altri gruppi locali) è proseguito velocemente con la creazione della Federazione delle Liste Verdi in forma di "partito" nel 1987 e l'entrata organizzata, nel 1990, degli ex radicali (con Rutelli) ed ex demoproletari (con Ronchi), che si erano inventati i Verdi Arcobaleno alle elezioni europee del 1989 per contare di più e dare la definitiva svolta partitaria ai Verdi, ancora troppo spontaneisti. Dal 1991 in poi si può parlare di un partito quasi esclusivamente di consiglieri, assessori, parlamentari ed aspiranti tali.
Il modello partecipativo, permeabile ai movimenti e ai comitati locali, sopravviveva, a stento, solo in alcune esperienze locali, localizzate soprattutto nel Nord-est, e nell'esperienza (rimasta unica) del Forum nazionale Risorse e Rifiuti, coordinato dal sottoscritto a nome dei verdi, ma composto da persone, gruppi e associazioni di ogni colore politico (da Rifondazione a Fare Verde di Paolo Colli, allora legato ad Alleanza nazionale) uniti dalla condivisione della linea e dell'attività di prevenzione e riduzione dei rifiuti, della raccolta differenziata spinta (porta a porta), della tariffa che premia chi produce meno rifiuti, del compostaggio domestico, del conseguente rifiuto degli inceneritori.
Oggi, di fronte alla miseria del panorama politico ed alla asfissia di tutti i partiti politici (salvo rarissime esperienze locali), mi domando: c'è ancora spazio per la proposta di Capitini del "potere di tutti", della democrazia vera, della partecipazione che è informazione diffusa, trasparenza dei processi decisionali, strumenti di democrazia diretta come i referendum comunali? In che modo è possibile (come scrive Daniele Lugli su "Azione nonviolenta" di marzo 2006) "accompagnare le istituzioni", controllarle, far loro sentire il fiato della gente sul collo? La risposta non è scontata; alla luce delle cocenti delusioni appena descritte, non basta il "rimbocchiamoci le maniche" dell'ottimismo della volontà,. Provo a indicare alcuni possibili "paletti":
a. Sostenere, valorizzare, collegare tra loro le esperienze di base, dal popolo dei ciclisti, a quello dei consumatori critici, dei riciclatori e anti-inceneritori o i tantissimi comitati contro l'elettrosmog. Queste esperienze, che quasi sempre nascono per motivi strettamente locali, possono arricchirsi, non scomparire alla fine della singola lotta (vinta o persa), non essere vampirizzate dalla politica istituzionale che, soprattutto in Italia, sopravvive succhiando e, spesso, tradendo le idee che vengono dal basso.
b. A partire da queste esperienze, costruire strumenti di nuova democrazia, costringendo la politica istituzionale a fare i conti con l'iniziativa popolare, senza dover rincorrere continuamente i tempi assurdi, i minuetti dei partiti, molto più interessati agli assetti di potere che ai problemi reali.
c. Contemporaneamente moltiplicare i "ponti" con le istituzioni, fatti di persone elette nei vari organismi (dal Quartiere al Comune, fino al Parlamento) che, prima di rispondere alla propria parte politica, si mettono realmente al servizio delle lotte e delle iniziative ecologiste, nonviolente e solidali. Ho detto ponti e non spie o transfughi, perché non si tratta di contrapporre le iniziative di base (buone) alle istituzioni (cattive), ma di aprire varchi significativi in esse perché il potere cominci a diventare di tutti. Questo è molto più facile se c'è una solida sponda all'interno delle varie istituzioni, che può essere esplicita o, talvolta, anche un pò "coperta" per non essere spazzata via prima di consolidarsi.
d. Essenziale comunque, sia per chi agisce fuori che per chi sta dentro le istituzioni, una forte coerenza tra le idee proclamate e il proprio stile di vita: non si può lottare contro l'elettrosmog ed essere perennemente attaccati al telefonino, così come non si fa la lotta all'inquinamento da traffico, viaggiando prevalentemente in auto in città e fuori. Così come i mezzi di lotta e di organizzazione vanno scelti esclusivamente alla luce della nonviolenza più assoluta. Solo una tale coerenza può permettere di cambiare le regole della politica e dei partiti.
Mi sono avvicinato alla nonviolenza dal 1972, quando, a 25 anni, ho cominciato a capire, durante un convegno nazionale semi-clandestino di Lotta Continua a Rimini, il suicidio umano e culturale della prospettiva della "guerra di popolo", tipo Irlanda del Nord (Ira) o Paesi Baschi (Eta), che veniva proposta con sempre maggior insistenza da una buona parte del gruppo dirigente, forzando in senso insurrezionalista la lettura delle lotte di quegli anni (dai cortei della Fiat del '69, alle barricate delle imprese d'appalto di Marghera del '70, alle lotte dei carcerati e dei soldati, fino ai moti per Reggio Calabria capoluogo di regione). Così Lotta Continua tendeva ad assumere (ma per fortuna si è sciolta prima) i connotati di un partitino leninista, gerarchizzato, con un "servizio d'ordine" numeroso ed aggressivo, tradendo l'ispirazione anti-autoritaria e spontaneista (alla Rosa Luxemburg) con cui l'avevamo costruita anche a Venezia e Marghera nell'autunno del 1969. Sono partito da questa vicenda personale, perché credo che, nella seconda metà del '900 in Italia si siano abbondantemente sprecate le due più importanti esperienze di rinnovamento "politico" nate dopo la stagione dei Cln del 1943-'46: l'anti-autoritarismo del '68 e l'ambientalismo degli anni '80.
L' "arcipelago verde" ha compiuto una parabola diversa da quella di Lc, ma simile nella sostanza: è nato nel giugno 1981, come coordinamento di gruppi ed associazioni locali che (dalla fine degli anni '70) agivano sui temi della mobilità ciclabile, alimentazione sana e agricoltura biologica, nonviolenza e antimilitarismo, riduzione e riciclo dei rifiuti, difesa dei consumatori, animalismo, antinucleare e promozione delle energie e tecnologie "dolci" e, in generale, diffusione di una cultura ecologista e nonviolenta. Sono nate le prime Università Verdi (Università popolare di ecologia a Mestre nel 1982 e poi, dal 1983, altre decine), i primi Amici della bicicletta (Firenze), le prime riviste ecologiste (Smog e dintorni a Venezia, Azione nonviolenta di Verona, Aam-Terra Nuova di Firenze, i Quaderni di Pistoia, la Malaerba a Pescara ecc.), le prime trasmissioni ambientali alle radio libere (da Radio Cooperativa di Mestre a Radio Irene di Comiso, in Sicilia), i nuovi gruppi nonviolenti della Loc, quelli di Tra la gente di Cesena e dintorni, e così via. Si è dato vita anche ad una agenzia stampa quindicinale, si chiamava "Arcipelago verde", appunto, ed era curata da ecologisti milanesi, con sede presso il Wwf locale; ci si incontrava ogni due mesi circa a Bologna in sale dei quartieri, e si decidevano assieme iniziative comuni. Senza rapporti gerarchici di alcun tipo; si trattava, insomma, di quella che oggi si chiamerebbe Rete.
Nel 1983 alcuni gruppi locali hanno presentato a Mantova, Trento, Viadana (dove volevano costruire una centrale nucleare) ecc. le prime Liste Verdi; l'esperienza era quasi sempre molto positiva, con forte partecipazione popolare, apertura delle istituzioni locali all'informazione pubblica, controllo degli eletti con frequenti assemblee, impegno alla rotazione negli incarichi.
Nel 1984 l'arcipelago verde ha convocato la prima assemblea nazionale a Firenze sull'ipotesi di presentare, l'anno successivo, Liste Verdi in molte città e regioni d'Italia. E subito si sono cominciate a vedere le prime manovre "romane", per omologare, imbrigliare, gerarchizzare il movimento ancora in fase nascente. Arrivano le segreterie nazionali delle associazioni ambientaliste che si erano messe d'accordo per creare una dirigenza nazionale: Legambiente (Mattioli e Scalia), Wwf (Amendola) e Amici della Terra (Signorino, Rosa Filippini e, dietro a loro, Pannella).
Il processo (nonostante la resistenza di Alex Langer, mia, di Mao Valpiana, di Giannozzo Pucci e di molti altri gruppi locali) è proseguito velocemente con la creazione della Federazione delle Liste Verdi in forma di "partito" nel 1987 e l'entrata organizzata, nel 1990, degli ex radicali (con Rutelli) ed ex demoproletari (con Ronchi), che si erano inventati i Verdi Arcobaleno alle elezioni europee del 1989 per contare di più e dare la definitiva svolta partitaria ai Verdi, ancora troppo spontaneisti. Dal 1991 in poi si può parlare di un partito quasi esclusivamente di consiglieri, assessori, parlamentari ed aspiranti tali.
Il modello partecipativo, permeabile ai movimenti e ai comitati locali, sopravviveva, a stento, solo in alcune esperienze locali, localizzate soprattutto nel Nord-est, e nell'esperienza (rimasta unica) del Forum nazionale Risorse e Rifiuti, coordinato dal sottoscritto a nome dei verdi, ma composto da persone, gruppi e associazioni di ogni colore politico (da Rifondazione a Fare Verde di Paolo Colli, allora legato ad Alleanza nazionale) uniti dalla condivisione della linea e dell'attività di prevenzione e riduzione dei rifiuti, della raccolta differenziata spinta (porta a porta), della tariffa che premia chi produce meno rifiuti, del compostaggio domestico, del conseguente rifiuto degli inceneritori.
Oggi, di fronte alla miseria del panorama politico ed alla asfissia di tutti i partiti politici (salvo rarissime esperienze locali), mi domando: c'è ancora spazio per la proposta di Capitini del "potere di tutti", della democrazia vera, della partecipazione che è informazione diffusa, trasparenza dei processi decisionali, strumenti di democrazia diretta come i referendum comunali? In che modo è possibile (come scrive Daniele Lugli su "Azione nonviolenta" di marzo 2006) "accompagnare le istituzioni", controllarle, far loro sentire il fiato della gente sul collo? La risposta non è scontata; alla luce delle cocenti delusioni appena descritte, non basta il "rimbocchiamoci le maniche" dell'ottimismo della volontà,. Provo a indicare alcuni possibili "paletti":
a. Sostenere, valorizzare, collegare tra loro le esperienze di base, dal popolo dei ciclisti, a quello dei consumatori critici, dei riciclatori e anti-inceneritori o i tantissimi comitati contro l'elettrosmog. Queste esperienze, che quasi sempre nascono per motivi strettamente locali, possono arricchirsi, non scomparire alla fine della singola lotta (vinta o persa), non essere vampirizzate dalla politica istituzionale che, soprattutto in Italia, sopravvive succhiando e, spesso, tradendo le idee che vengono dal basso.
b. A partire da queste esperienze, costruire strumenti di nuova democrazia, costringendo la politica istituzionale a fare i conti con l'iniziativa popolare, senza dover rincorrere continuamente i tempi assurdi, i minuetti dei partiti, molto più interessati agli assetti di potere che ai problemi reali.
c. Contemporaneamente moltiplicare i "ponti" con le istituzioni, fatti di persone elette nei vari organismi (dal Quartiere al Comune, fino al Parlamento) che, prima di rispondere alla propria parte politica, si mettono realmente al servizio delle lotte e delle iniziative ecologiste, nonviolente e solidali. Ho detto ponti e non spie o transfughi, perché non si tratta di contrapporre le iniziative di base (buone) alle istituzioni (cattive), ma di aprire varchi significativi in esse perché il potere cominci a diventare di tutti. Questo è molto più facile se c'è una solida sponda all'interno delle varie istituzioni, che può essere esplicita o, talvolta, anche un pò "coperta" per non essere spazzata via prima di consolidarsi.
d. Essenziale comunque, sia per chi agisce fuori che per chi sta dentro le istituzioni, una forte coerenza tra le idee proclamate e il proprio stile di vita: non si può lottare contro l'elettrosmog ed essere perennemente attaccati al telefonino, così come non si fa la lotta all'inquinamento da traffico, viaggiando prevalentemente in auto in città e fuori. Così come i mezzi di lotta e di organizzazione vanno scelti esclusivamente alla luce della nonviolenza più assoluta. Solo una tale coerenza può permettere di cambiare le regole della politica e dei partiti.