"La tortura non ci appartiene culturalmente", ci siamo difesi così in Italia davanti alla sentenza della Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, che ha condannato l’Italia per le torture commesse dalla polizia alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Il ddl che è stato approvato alla Camera è oggetto ancora di controversie e distinguo, ma intanto è prevista una aggravante quando a commettere il reato è un pubblico ufficiale che agisce con abuso di potere o violando i doveri inerenti la sua funzione. Viene anche istituito il reato di istigazione alla tortura da parte di un pubblico ufficiale ad un altro pubblico ufficiale.
Questa vicenda, come anche, negli Usa, l’uccisione di un nero disarmato da parte di un poliziotto in Oklahoma, che ricorda i casi analoghi avvenuti in South Carolina, a Dallas, Los Angeles, New York, Cleveland, Ferguson, e altri casi di violenza della polizia nei confronti di afroamericani, riapre il dibattito sulla condotta delle forze dell’ordine, e pone il problema più generale della legittimazione all’uso della violenza.
È necessaria la violenza? È legittimo uccidere o ferire o torturare un sospetto di reato? Sono sempre colpi sfuggiti per sbaglio? Sono sempre reazioni a situazioni di presunto pericolo? Come mai negli Usa questi «errori» avvengono per lo più davanti a cittadini afroamericani? Come mai a casa nostra, nella patria di Cesare Beccaria,si è arrivati alle atrocità della Diaz e di Bolzaneto, e a parecchie altre situazioni, come il caso Cucchi, che ancora lanciano ombre pesanti sull’operato della polizia?
Non dimentichiamo certo quanti agenti e funzionari di polizia agiscano ogni giorno sul territorio con grande perizia e abnegazione, e teniamo in mente quanti svolgono coraggiose indagini a rischio talvolta della propria vita contro il crimine organizzato, come onoriamo i tanti rappresentanti delle forze dell’ordine caduti per attentati, o nel corso del loro difficilissimo lavoro. Stiamo parlando non delle persone, ma di qualcosa che le trascende, stiamo parlando dell’uso della forza, e della violenza, come mezzo di repressione o di difesa.
Naturalmente violenti?
Che la violenza generi solo altra violenza, e che inneschi una spirale dove poi mantenere l’ordine costerà quote ulteriori di violenza, è sotto gli occhi di tutti. Sembra però che siamo schiacciati dalla impossibilità di pensare ad un’altra via, sembra utopico se non velleitario ogni discorso che solo osi porre questo problema.
Legittimare la violenza sembra inevitabile, una specie di «effetto collaterale» della risposta al bisogno di sicurezza. Ancora c’è una bella quota di pensiero politico, antropologico, sociologico, e anche psicologico che inquadra la violenza tra le pulsioni «naturali» dell’essere umano. Anche dopo che il 16 maggio 1986 a Siviglia esperti di tutte le discipline che si occupano dell’umano, dalla neurofisiologia alla psicobiologia passando per l’etologia, hanno rilasciato la «Dichiarazione sulla violenza», dove hanno messo in discussione le presunte scoperte biologiche in base alle quali è stato giustificato l’uso della violenza, e con esso il ricorso alla guerra, denunciando come a suo tempo anche la teoria dell’evoluzione della specie sia stata usata per giustificare genocidi, colonialismo, oppressione e sfruttamento su tutto il pianeta.
L’inganno è nell’equivalenza che è stata stabilita tra aggressività e violenza, dove la prima è evidentemente una pulsione vitale, che, esattamente come la fame e l’istinto sessuale, è volta alla conservazione della vita, mediante il movimento di andare verso (ad-gradere) la acquisizione del nutrimento e mediante il movimento di difesa dei propri confini e spazio di vita.
La violenza invece non è un andare verso, non è neppure il proteggere la vita propria o altrui, è andare contro, è un movimento di distruzione e di annullamento della vita, o della forza o del potere o della dignità altrui. È una deriva della pulsione aggressiva, una perversione culturalmente giustificata ed esaltata.
Mentre per le altre due pulsioni di base (la fame e il desiderio sessuale) ogni sistema educativo umano ha trovato formule diverse e anche molto articolate per insegnare a contenere e gestire queste due forze vitali, lo stesso non è avvenuto per l'aggressività, che si insegna a contenere e ritualizzare solo nello stretto spazio deputato alle competizioni sportive (e molto meno sugli spalti o nei paraggi delle stesse...). Esistono forme raffinate e culturalmente evolute per cucinare il cibo, servirlo a tavola e farne un rituale sociale, forme di controllo (un po' meno raffinate in occidente, ma raffinatissime in altre culture) per l'espressione della sessualità, con conseguente riprovazione sociale per gli eccessi e l'esibizione fuori dai contesti designati, regole morali e leggi per disciplinare questa pulsione, e troviamo invece poche o nessuna forma di educazione per la pulsione aggressiva, lasciata a se stessa e autorizzata culturalmente a naufragare nelle condotte violente.
L'uso della forza e della violenza per ripristinare la ragione e la giustizia non ha alcuna base biologica, non ci sono geni che predispongono gli individui alla violenza, non fa parte della evoluzione della nostra specie, che viceversa è proliferata su tutto il pianeta per la capacità, questa sì naturale, degli umani di fare gruppo, di stabilire legami affettivi, di identificarsi con l'altro e provare empatia, per la tendenza a cooperare e collaborare.
La cultura della violenza
Le nostre azioni, proprio per questa innata tendenza sociale, e per la nostra nascita immatura sotto il profilo neurofisiologico, sono il risultato non già di pulsioni irresistibili, ma del modellamento costante e del condizionamento operato dalla socializzazione. Non c'è nulla nella nostra neurofisiologia che ci obblighi a reagire con la violenza, neppure il testosterone, neppure l'adrenalina.
La violenza la si apprende: dai giocattoli dei bambini, alle 18.000 morti violente che ogni ragazzina o ragazzino (meglio se maschio) avrà guardato in tv prima di diventare grande. Bombe, pistole e pugni fanno il vero uomo, quello che non discute ma impone, quello che alza le mani invece di accendere il cervello. Il coraggio non viene collegato alla responsabilità o all'abnegazione, ma al controllo, alla forza, all'arroganza.
Attenzione, non è la natura umana che è violenta. Piuttosto c'è una regola sociale, che associa il potere alla forza fisica o al possesso di mezzi di deterrenza e di sanzione, che associa il valore della persona al quoziente di paura che può incutere, e associa il valore e la dignità di una persona non alla sua forza morale o all'esempio di vita che trasmette, ma alla sua velocità e intensità nel reagire con movimento simmetrico alle provocazioni e alle offese.
Le convenzioni sociali premiano i più impulsivi e i più clamorosi, e riconoscono valore non già all'autocontrollo e alla gestione adulta consapevole dei propri impulsi, ma alla esplosività e alla prontezza della reazione. A chi agisce con più violenza è riconosciuto il rispetto, il potere di stabilire le regole e il potere di sanzione. Da qui al passaggio verso la violenza illegale e criminale il cammino è breve: ogni potere che si autolegittima con la violenza, è legittimato socialmente subito dopo, riconosciuto come potere da rispettare, e magari anche emulare, in base a questo paradigma condiviso.
Quali passi servono al nostro pensiero per superare il pregiudizio della violenza come destino necessario ed inevitabile del genere umano, della natura e della storia? La dichiarazione di Siviglia del 1986, che argomentava la tesi della violenza come prodotto socio-culturale, appreso via neuroni specchio nelle prime fasi della nostra vita e legittimato da sistemi educativi e sociali che lo consolidano come unica modalità di soluzione nelle situazioni di tensione, non sembra ancora aver lasciato tracce visibili nei paradigmi educativi, nella formazione dei leader e dei capi politici, e nella formazione delle forze dell'ordine.
Mediazione nonviolenta
Tra i tanti importantissimi trattati e manuali di teorici e attivisti della nonviolenza, dove troviamo analisi, studi e pratiche sociali che propongono vie diverse dalle armi e dalle uccisioni per risolvere le controversie e gestire i conflitti sociali, prendiamo in mano L'arte della pace, di Alberto L'Abate, un libro che rovescia già nel titolo il famosissimo L'arte della guerra di Sun Tzu. L'Abate cita Martin Luther King: dobbiamo usare le nostre menti per pianificare la pace nello stesso modo rigoroso con il quale finora abbiamo pianificato la guerra. Verificare quanti metodi di mediazione dei conflitti diversi dalla violenza sono praticabili, ci rincuora e nello stesso tempo ci sconcerta: come mai questo patrimonio di preziose idee resta confinato nelle nicchie della conoscenza, e non ha ancora trovato adeguato spazio sui banchi di scuola, nelle università, nei corsi di formazione professionale, come indispensabile life skill?
Possiamo accennare solo ai principi fondamentali che fanno da cornice alle tecniche nonviolente di gestione dei conflitti, utilizzabili anche e soprattutto dove le situazioni sono più tese e drammatiche, in guerra o in caso di gravi conflitti sociali... Innanzi tutto distinguere le persone dai problemi e dai comportamenti che esse agiscono; ricollocare al centro del discorso non le posizioni, ma gli interessi e i bisogni delle parti; sviluppare diverse opzioni di mutuo beneficio prima di giungere ad una proposta di accordo; costruire l'accordo sulla base di criteri oggettivi e condivisi di equità.
Analizzare il conflitto invece di lasciarsi trascinare dalla tendenza a reagire, osservando e distinguendo gli atteggiamenti, i comportamenti, le contraddizioni, e intervenire gradualmente sostituendo l'empatia alla sfiducia e al rancore, la comunicazione e la azione nonviolenta ai comportamenti violenti, la soluzione creativa dei problemi allo scontro.
Si può rintracciare la radice della reazione violenta nel paradigma relazionale della superiorità-inferiorità, dove viene negata all'altro essere umano pari dignità, oppure viene posta la propria posizione come superiore, oppure ci si percepisce inferiori e impotenti, con la violenza come unico strumento di riequilibrio dei poteri. Si tratterà allora di ripristinare condizioni di equivalenza, legittimando reciprocamente le istanze profonde sottese alla punta emergente del conflitto, e questo approccio consentirà di eliminare le radici che nutrono la violenza.
Si può utilizzare l'apporto della Teoria dei giochi, e uscire dalla logica «o/o», contrappositiva e oppositiva, per entrare nella logica «e/e», inclusiva e cooperativa, dove si scartano i «giochi» - cioè gli schemi che regolano le sequenze di relazione interpersonale - a somma zero (vinco io/perdi tu) e a somma negativa (perdo io purché tu perda di più), per orientarsi verso i giochi a somma positiva (vinco io e vinci tu), dove il reciproco riconoscimento e vantaggio è l'obiettivo cui tendere.
Si può fare mediazione sociale in situazioni drammatiche seguendo la pratica dei Parent's Circle Families Forum, una organizzazione fatta dai parenti delle vittime del conflitto arabo-israeliano, così come si possono utilizzare le pratiche delle donne in nero israeliane e delle donne palestinesi, che cercano un dialogo anche nel conflitto bellico attivo, e si può cercare una via di mediazione nella pratica delle cosiddette «Terze parti interne», cioè quelle componenti dei due schieramenti o dei due interessi contrapposti che non si identificano con la modalità di gestione del conflitto portata avanti dalla propria parte e cercano accordi con i loro corrispondenti (parte interna terza) dello schieramento avverso. Si può imparare dall'esperienza del Sud Africa dopo la fine dell'apartheid, con le sue pratiche di riconciliazione e di giustizia rigenerativa, che trasformarono in nazione quello che era un corpo sociale fratturato e ferito a morte dal razzismo e dal colonialismo.
Sono scelte, questo è certo, che richiedono una trasformazione culturale profonda, scelte coraggiose capaci di far ruotare il vertice che orienta alla violenza e de-verterlo, con-vertirlo, nel senso della giustizia e della pace, fuori dalla spirale che vede la violenza e la reazione di contrapposizione come unica forma di risposta all'offesa e all'ingiustizia, come l'unica forma di potere e di interazione sociale che può garantire ordine e sicurezza.
Rosella De Leonibus
Pubblicato sulla rivista "Rocca" della Pro Civitate Christiana Assisi del 1 maggio 2015, nella rubrica "I volti del disagio"