Bettino Craxi, fu, tra le altre cose e soprattutto, segretario del Partito socialista italiano fondato a Genova nel 1892. Protagonista di tutte le lotte di emancipazione degli operai e dei contadini fino alla sconfitta subita dal fascismo, il PSI rinacque nel corso della Resistenza sotto la leadership di Pietro Nenni e fu protagonista della vicenda repubblicana, che seppe vivificare con svolte politiche e innovazioni teoriche di grande portata, illuminato dalle menti di dirigenti come lo stesso Nenni, Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti. Complici le peculiarità del sistema politico italiano e dei suoi maggiori protagonisti – democristiani e comunisti – il PSI fu in qualche maniera costretto ad un surplus di inventiva politica per mantenere intatta una proposta politica autonoma senza al contempo perdere i legami, il radicamento e la direzione di una parte almeno dei ceti subalterni. Questo PSI non sopravvisse, sostanzialmente, al suo ultimo grande leader, Bettino Craxi. Queste 8 tesi vogliono essere un contributo alla discussione su Craxi da un punto di vista socialista, dal punto di vista cioè della storia, della tradizione e della funzione politica e sociale dei socialisti. Un punto di vista non neutrale né tanto meno oggettivo. Semmai, per certi versi, un punto di vista scontato – come giudicare un leader socialista se non dal punto di vista del socialismo? Eppure proprio da questo punto di vista pare che la discussione su Craxi avviata in occasione del ventennale della scomparsa rimanga carente.
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Craxi ha condotto il socialismo italiano fuori dalla storia e dall’alveo del movimento operaio. Il ceto sociale di riferimento del socialismo, con Craxi, non sono più i lavoratori subordinati, ma i ceti medi del nord votati all’esportazione e i ceti medi clientelari del sud. Nella strategia egemonica del movimento operaio del ‘900 è sempre presente una riflessione privilegiata sui ceti medi, ma questi vanno inseriti nel blocco storico guidato dai lavoratori dipendenti e subordinati. Sotto Craxi il socialismo italiano opera in questo senso una rivoluzione copernicana, al contempo retorica, simbolica e politica. Anche la rivalutazione di Proudhon e la condanna di Marx non si traducono in un impulso alla ripresa dei temi consiliaristi e libertari presenti nell’interpretazione tradizionale del socialismo da parte del PSI, ma in una operazione di facciata che serve solo a giustificare da un punto di vista ideologico la frattura con il PCI. A voler ritrovare all’interno della storia del socialismo italiano i filoni di una tradizione differente da quella del comunismo ci sarebbe stato l’imbarazzo della scelta, da Morandi a Panzieri ai protagonisti della stagione del “disgelo” post-1956. Il rifarsi a un oscuro pensatore francese che pochi militanti del resto conoscevano nasconde forse la volontà di allontanarsi non solo dal marxismo e dal leninismo, ma da tutta la tradizione del movimento operaio del nostro Paese.
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Craxi fa abbracciare al socialismo italiano uno dei capisaldi della restaurazione neoliberale, e cioè assume la lotta all’inflazione come variabile indipendente della lotta politica, e sceglie l’attacco al salario come via per aggredire l’inflazione. Da questo punto di vista la vittoria di Craxi contro il sindacato nel referendum sulla scala mobile equivale a quella di Reagan contro i sindacati dei controllori di volo e quella della Tatcher contro i sindacati dei minatori. Ancora una volta si mescolano in quella scelta questioni di politica economica e sociale e questioni simboliche non meno importanti.
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Craxi interrompe una tradizione secolare del socialismo, consistente nel selezionare i quadri del partito direttamente dalle classi subalterne. Grazie ai partiti del movimento operaio, a partire dal secondo dopoguerra si era assistito in Italia ad un cambiamento epocale: per la prima volta i subalterni erano divenuti essi stessi classe dirigente. Con Craxi il socialismo si astrae dalla sua storica rappresentanza nella composizione dei gruppi dirigenti. Il funzionario di partito è il personaggio funzionale allo sviluppo del partito in quanto tale, non chi si è distinto nella lotta funzionale allo sviluppo del socialismo. Ed infatti, con la fine del PSI, numerosi di quei quadri li si troverà ben inseriti, con alcune eccezioni, nelle file della destra berlusconiana.
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Craxi ed i funzionari così selezionati si fanno portatori di una visione del partito e dei suoi rapporti con la società priva di scrupoli e di tensione morale. Dilaga il finanziamento illecito. “Così fan tutti”, come Craxi rivendicò di fronte alla Camera dei Deputati, non è una motivazione che un socialista può far propria. “Così fan tutti”, ma i socialisti non lo dovrebbero fare. Ma soprattutto, Craxi e il gruppo dirigente craxiano non fanno niente, attraverso il loro comportamento, per interrompere una pratica di saccheggio continuo dello Stato da parte delle oligarchie economiche e finanziarie. Come aveva ben illustrato un altro socialista, Lelio Basso, le classi dirigenti liberali dopo l’unità d’Italia avevano concepito lo Stato non come arena dello scontro politico, ma come cassa di risonanza – e cassaforte – dei propri interessi particolari. Nella riflessione di Lelio Basso, la nascita e l’affermarsi del PSI in Italia aveva svolto, tra le tante, anche la funzione di interporsi a questo (mal)costume nazionale. Con la segreteria di Craxi viene meno questa storica funzione del socialismo italiano.
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Craxi fa abbracciare al socialismo un altro caposaldo della restaurazione neoliberista, ossia la libertà di circolazione dei capitali, accettando prima il divorzio tra Banca d’Italia e ministero del tesoro, poi l’Atto unico europeo, e infine la firma del trattato di Maastricht. Questo del resto in perfetta coerenza con il cambio di referenti sociali del socialismo italiano che si verifica sotto la sua segreteria e con lo spirito della battaglia combattuta in occasione del referendum sulla scala mobile.
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Craxi identifica la parte centrale della sua segreteria con il tema della grande riforma istituzionale. Al cuore della grande riforma, al di là di alcune sfumature, c’è la ravveduta necessità di spostare il baricentro della vita politica dal parlamento e le assemblee elettive all’esecutivo. In linea, più che col pensiero socialista, con quello neo-conservatore. Negli anni ’60 il disegno organicamente riformatore del primo centro-sinistra era andato incontro a numerosi arresti, pur tra importantissime affermazioni riformiste. Ma le conquiste dei ceti subalterni non si erano arrestate col finire di quell’esperimento, anzi, nel corso degli anni Settanta erano proseguite ancor più spedite, trovando nella legislazione per via parlamentare una risposta adeguata anche alle rivendicazione più avanzate. Allora la grande riforma assume il sapore di un tentativo di mettere le istituzioni liberali al riparo dalla conflittualità sociale.
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Craxi, fallita sostanzialmente la strategia della grande riforma, assume come centrale il ruolo del PSI all’interno dello schema del pentapartito ed anzi di un sottogruppo interno a questa conformazione politica, l’alleanza del CAF. Sfugge il nesso con le ragioni del socialismo. Non c’è del resto nessuna prova certa, ma solo ricostruzioni a posteriori di scarso valore, della sua volontà di superare quello schema di governo e di gestione del consenso parlamentare dopo il crollo del muro di Berlino. Coerentemente, alla faccia della retorica sulla presunta modernità del PSI craxiano, la crescita elettorale fu in fin dei conti poco consistente (14%), e drogata soprattutto dalla meridionalizzazione del Partito e dalla lotta alla DC per il consenso dei ceti clientelari.
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Craxi fa abbracciare al socialismo italiano un ulteriore caposaldo della restaurazione neoliberale, quello della “modernizzazione”. La “modernizzazione” è poi divenuta l’ideologia delle classi dominanti. In assenza di particolari specificazioni, va presa per quella che poi è divenuta praticamente. La modernizzazione è l’artificio retorico dietro il quale si opera per affidare lo sviluppo del paese interamente e unicamente alle logiche dell’accumulazione capitalistica. È parola d’ordine trasversale e interclassista, è la modernità senza conflitto, l’idea che il progresso non solo può fare a meno del conflitto, ma anzi che il conflitto è “anti-moderno”, è un disturbo sulla via del progresso. Le “riforme” non devono quindi istituzionalizzare il conflitto, ma mettere le istituzioni stesse al riparo dal conflitto. Ma soprattutto la parola d’ordine della “modernizzazione” è una parola d’ordine depoliticizzata e depoliticizzante. Non c’è spazio nel paradigma assolutista della “modernizzazione” per il conflitto ideologico. E forse, allora, la mancanza di un giudizio di parte socialista su Craxi in questo ventennale si può leggere alla luce del suo trionfo, del trionfo cioè del paradigma della modernizzazione, che non lascia spazio alle ragioni del socialismo.
Fonte: “Senso Comune”, del 20 gennaio 2020. https://www.senso-comune.it/
Segnalato da Massimo Michelucci