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Per cosa combatte il Tibet (Enzo Bianchi)

Pubblicato su “La Stampa” del 20 marzo 2008 e su “La domenica della nonviolenza”, n. 156 del 23 marzo 2008

"Etichettando come nemici le autorità cinesi, potremmo pronunciare una ipocrita condanna della loro brutalità, ma non è così che si ottengono la pace e l'armonia". Risuonano tragicamente attuali queste parole che il Dalai Lama va ripetendo ormai da 50 anni - una delle occasioni più vicine a noi nello spazio e nel tempo è stata la sua conferenza a Milano nel dicembre scorso su "La pace interiore e la nonviolenza" - ma proprio per questo il poco che ci è dato di conoscere degli eventi di questi giorni in Tibet riveste una drammaticità estrema.
Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.

C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita "altrimenti", di una diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del "mercato" con i suoi miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle città principali.

È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche "ragionevoli", ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste "qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire", manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata.

In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo.

Ed è in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di cui è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci - quanto da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la violenza quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è lecito giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo temere il possibile degenerare della "forza" della nonviolenza in azioni violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualità del "genocidio culturale" denunciato dal Dalai Lama.

Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.