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SREBRENICA: QUANDO FA COMODO DIMENTICARE UNA STRAGE (di Davide Tondani)

Tratto da “Il Corriere Apuano” del 16 luglio 2005

Nell’incessante spuntare di giornate della memoria, del ricordo, dei martiri, nel conseguente fiume di inchiostro e immagini ricche di retorica, “per non dimenticare” e passerelle politiche, non c’è posto per Srebrenica e per gli oltre 4 anni della guerra jugoslava.
Ricordare quello che accadde l’11 luglio del 1995 è imbarazzante per tutti. La guerra di Jugoslavia era in corso da ormai 4 anni, quando le cattoliche Slovenia e Croazia proclamarono la loro secessione ottenendo subito un improvvido riconoscimento da parte di Germania e Città del Vaticano.
La Bosnia-Erzegovina, per decenni un esempio di convivenza etnico-religiosa tra cattolici croati, ortodossi serbi e musulmani bosniaci, dove i matrimoni misti erano cosa comune e i diversi modi di vivere erano ampiamente rispettati dagli altri, fu travolta dagli eventi.
Quando il leader nazionalista musulmano Itzebegovic proclamò anch’egli l’indipendenza, l’etnia serba, comandata da Radovan Karadzic, scatenò una guerra civile per non separare il loro stato di appartenenza dalla Serbia di Milosevic. Le truppe del generale Mladic per tre anni assediarono i quartieri musulmani di Sarajevo dalle alture circostanti, i colpi di granata e i cecchini mietevano vittime innocenti al mercato e nelle case.
Gli Stati Uniti e l’Europa, negli stessi anni pronti ad intervenire in Iraq o in Somalia, stettero a guardare tentando timide mediazioni con Lord Carrington e appaltando all’ONU una presenza sterile e formale con i suoi Caschi Blu.
In questo contesto desolante, l’ONU concentrò i bosniaci nella zona protetta di Srebrenica, tutelati dai caschi blu olandesi comandati dall’inetto generale Morillon, oggi eurodeputato. La garanzia data da Morillon che nessuno avrebbe toccato quelle persone cadde davanti alla determinazione di Mladic, che a partire dall’11 luglio, indisturbato, fece deportare 40.000 bosniaci maschi, uomini e bambini, uccidendone brutalmente quasi 8.000. Per le donne il trattamento era invece lo “stupro etnico”. Nell’indifferenza di un Europa in vacanza sarà Giovanni Paolo II a chiedere a gran voce di disarmare l’aggressore, nei giorni stessi in cui il leader pacifista altoatesino Alex Langer si toglieva la vita affranto da quelle stragi che ne minavano gli ideali di pace.
Solo a fine 1995 l’Occidente raccolse a modo suo l’appello del Papa, capendo che la Jugoslavia poteva ridare senso ad una NATO oramai inutile (il comunismo era oramai seppellito) e si diede al bombardamento dei serbi e alle “ingerenze umanitarie”. Ne approfittarono i croati cattolici, che nelle stesse settimane espulsero dalla Kraijna la minoranza serbo-ortodossa, uccidendo 40 mila persone. I successivi accordi di Dayton, quelli che incoronarono Milosevic come uomo di pace (lo stesso Milosevic diventato poi cattivo con i buoni albanesi dell’UCK), posero le basi per una Bosnia di separati in casa, dove dopo dieci anni è ancora una forza internazionale a evitare la ripresa delle ostilità.
Genocidio. Pulizia Etnica. Di un popolo musulmano laico e non fondamentalista. Benedetta da preti ortodossi, mentre poco più a nord gli Ustascia cattolici si sbarazzavano dei serbi. Nella più completa indifferenza di tutti, soprattutto degli odierni tromboni dello scontro di civiltà e percussionisti della democrazia da esportare. A 10 anni esatti da quella strage che riportò l’Europa alle tragedie di 50 anni prima, i Bush, i Rumsfield, i Blair, i nostri Pera e Ferrara, tacciono imbarazzati quando si parla di Srebrenica.


Davide Tondani