Diana Blefari Melazzi è stata la sessantesima persona che si è ammazzata nelle patrie galere dall'inizio dell'anno a oggi. Avrebbe dovuto essere custodita dallo Stato. Lo Stato non l'ha custodita nel modo in cui avrebbe dovuto. Pare che oramai per custodia si intenda solo imprigionamento, reclusione, punizione. Eppure non dovrebbe essere così. L'idea costituzionale di custodia è ben altra. Essa comprende il concetto di cura, di trattamento non dis-umano, di offerta di opportunità sociali. La riforma penitenziaria italiana risale al 1975. Essa regolamentava una idea non solamente reclusoria di custodia. Lo faceva nonostante fossero gli anni della lotta armata. Nel 1986 i confini di quella riforma furono ulteriormente allargati grazie a Mario Gozzini e alla sua legge. Eppure esistevano ancora gli eredi delle Brigate Rosse. Lo Stato accettò la sfida della ragionevolezza. Veniamo al 2009. Non si può dire che nel 2009 vi sia un'emergenza terrorismo. Diana Blefari è stata lasciata morire da sola in galera con la propria disperazione. Tra la sua depressione e un cieco e nero dovere di imprigionamento ha prevalso quest'ultimo. La cura è stata sommersa dall'imprigionamento a tutti i costi. L'imprigionamento nei confronti di una persona che sta male dal punto di vista psichiatrico è un imprigionamento non costituzionale, odioso. Uno Stato che lascia morire una persona che non sta bene è uno Stato debole, crudele, che risponde occhio per occhio. Cosa si poteva fare per Diana Blefari? Si poteva ad esempio credere a quei medici che dicevano che stava male, si poteva aiutarla a curarsi rinviando il momento del processo. Si poteva evitare di lasciarla sola. Poteva essere ricoverata in qualsiasi ospedale. Invece la si è abbandonata in cella. Qualche settimana fa nel carcere di Rovereto è morto Stefano Frapporti, cinquantenne, muratore. Aveva una sola mano a causa di un brutto incidente sul lavoro. Era stato fermato dai carabinieri mentre era in bicicletta. Lo avrebbero perquisito, gli avrebbero trovato dell'hashish. Hashish, non pistole, non mitra, non eroina. Non aveva commesso crimini di "terrorismo". A causa di quella droga "leggera" è stato arrestato e condotto nel carcere di Rovereto. Dopo poche ore pare si sia ammazzato. Sembra inoltre che fosse in custodia nel reparto osservazione, alla stregua di un delinquente vero.
Ecco cosa è cambiato dagli anni Settanta a oggi: dentro le carceri, il sistema ha perso di razionalità; fuori, la repressione colpisce a raggiera, non solo chi compie fatti eversivi, ma tutti coloro che per ragioni di status o di stili di vita non sono conformi al modello dei custodi. Sessanta suicidi in dieci mesi sono un'enormità. Sei persone al mese si sono sinora ammazzate in carcere. Una ogni cinque giorni. È questa la vera ecatombe del sistema giustizia. Una giustizia che salva i ricchi e custodisce senza umanità tutti gli altri mandandone un po' a morte. A seguito di ogni suicidio vi è sempre un'indagine amministrativa del ministero della Giustizia. Nel caso di Diana Blefari Melazzi ci piacerebbe che, oltre a questa, si esprimesse anche il Csm sulla correttezza delle gelide procedure giudiziarie. Nel caso di Stefano Frapporti, sotto inchiesta dovrebbe andare una legge stupida e violenta quale quella sulle droghe.
Ecco cosa è la galera nel 2009: una somma di casi individuali disperati che il sovraffollamento rende invisibili. Ci vorrebbe un moto di sollevazione delle coscienze che li faccia uscire da quella tragica condizione di opacità.
Patrizio Gonnella presidente di Antigone
Fonte: "Il Manifesto" del 3 novembre 2009
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Stato debole, crudele che risponde occhio per occhio
- Patrizio Gonnella
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