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Sull'art. 70 delle riforma costituzionale Boschi-Renzi

L’art. 70 delle riforma costituzionale Boschi-Renzi, che ho provato a leggere, è davvero indecifrabile per la gente comune  come me, ma ormai è assodato anche per fior di costituzionalisti che ne hanno condannato la farraginosità e la oggettiva incomprensibilità.

Tanto è vero che ormai è l’obiettivo sacrosanto di chi critica la legge di riforma.

Anche in ciò Renzi ha deluso perché era stato vissuto come promotore di semplificazione della burocrazia, ed anch’io, per esempio,  se avessi trovato un articolo chiaro, sarei stato più facilitato a scendere nel merito e a scegliere di conseguenza, senza rischiare di finire in atteggiamenti preconcetti.

Una legge scritta in tal modo serve solo a portare acqua ad atteggiamenti sociali superficiali, per i quali si è portati  a ritenere la gestione del potere (legislativo, esecutivo, giudiziario), per tutto lo Stato e i suoi Organi, fin giù fino ai Comuni, come un compito complesso e difficile, che abbisogna di specialisti.

L’esatto opposto del programma annunciato da Renzi.

In effetti la gente comune si sente estromessa dalla possibilità di gestione  e finisce  per condannare ancor di più tutto e tutti, in quanto la complessità diventa una giustificazione per chi si è arreso alla politica, per chi esprime una condanna a priori della stessa,  in varie forme, dalla scelta di voto populista della destra, a quella certo più articolata ma ancora con carattere di rifiuto della politica dei Cinque Stelle,  a quella dell’esercito degli astensionisti.

La gestione del potere non sarebbe cioè accessibile alla cosiddetta “gente comune”.

Del resto come dimenticare che nella nostra città ci  sono stati sindaci eletti proprio da questo senso di antipartitismo contro il sistema politico che pervadeva il tessuto sociale, in modo ormai così forte da provocare appunto un rigetto spontaneo, non ragionato, non appunto politico?

Sulla base del discorso del tecnicismo delle leggi e della famosa governabilità è stata da più parte citata la famosa frase di Lenin che, secondo Majakovskij,  disse: “Noi,  anche ad ogni cuoca insegneremo a dirigere lo stato”. Forse la frase è una leggenda, comunque il senso della politica di Lenin fu quello di far arrivare direttamente anche  gli operai e i soldati all’amministrazione dello Stato, e non solo la nomenclatura della borghesia e dell’aristocrazia, la cosiddetta intellighenzia che lui disprezzava.

L’invito di Lenin fu in passato messo in pratica dal vecchio PCI che aveva la scuola delle Frattocchie dove promuoveva l’insegnamento della prassi politica-amministrativa ai suoi militanti, soprattutto giovani.

Ancor più restringendo l’esempio nella piccola Massa dipinta, nella seconda metà del Novecento operai delle fabbriche della ZIA arrivarono attraverso il PCI a fare i consiglieri comunali, gli assessori, anche regionali e i deputati in parlamento.

Alla scuola del PCI non insegnò Lenin, ma sicuramente Di Vittorio, per il quale il libro più importante era il Vocabolario, e per il quale la cosa più significativa in politica era farsi capire, nel parlare e nello scrivere.