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Un sorriso non ha nazionalità!

Credo che esistano diversi modi di affrontare il problema dell'immigrazione: si potrebbe partire dai dati sul fenomeno, si potrebbe fare filosofia sull'uguaglianza tra uomini e donne, a prescindere dalla loro nazionalità e dalla loro condizione economica.
Tanto per cominciare, però, bisognerebbe eliminare i pregiudizi che spesso abbiamo nei confronti dell'altro, del diverso, che troppe volte ci impediscono di metterci in comunicazione con lui.
Proprio quest'anno e, in particolare, in questo periodo in cui si è sentito parlare spesso di episodi collegati allo scottante  tema immigrazione, ho avuto modo di confrontarmi con persone straniere che vivono, chi da più chi da meno tempo, qua in Italia. Grazie al gruppo scout di cui faccio parte, ho iniziato da qualche mese un esperienza di servizio alla Casa di Accoglienza di via Godola. Mentre, con gli altri volontari, preparo la cena e apparecchio la tavola, mi è capitato diverse volte di parlare con gli ospiti e ci sono alcune cose che ho notato, un certo ripetersi di considerazioni fatte dagli uni nei confronti degli altri, da marocchini verso rumeni e così via.
Ho notato che, tralasciando la forte coesione all'interno dei clan familiari, esiste una netta divisione tra persone di diversa nazionalità, che pur si trovano nella stessa condizione di immigrati, senza casa e quasi sempre senza lavoro. Non esiste, salvo in casi eccezionali, una sorta di solidarietà di categoria: non si festeggia per la riuscita dell'impresa di uno, né si piange la perdita del lavoro di un altro.
E' in corso una specie di lotta alla sopravvivenza per cui ciò che guadagna uno è qualcosa che non può più guadagnare l'altro.
Questa mentalità non è abituale solo per gli stranieri, ma anche per gli stessi italiani disoccupati e senza tetto che vengono ospitati alla Casa, che sono un numero consistente rispetto a quello che mi aspettavo.
Mentre portavo avanti il mio servizio, ho intrapreso un'altra attività, sempre assieme al gruppo scout e, stavolta, in collaborazione con l'associazione Migrantes. Assieme ad altri ragazzi abbiamo intervistato diversi nostri coetanei stranieri, immigrati in Italia da non più di tre anni, scoprendo com'è per loro vivere qui, se si sono integrati o meno, quali problemi hanno.
Quello che mi ha colpito, in questo caso, è stata la speranza e l'allegria che i ragazzi mi hanno trasmesso: l'intervista si è trasformata in una chiacchierata vivace dove, spesso, non esisteva più il margine che divide chi fa le domande da chi risponde, ma si è instaurato un rapporto, tra "noi" e "loro", che ci ha portato a un confronto aperto molto interessante. Interessante prima di tutto per il fattore religione: i ragazzi con cui abbiamo parlato sono tutti musulmani e non sembrano affatto chiusi nei confronti dei loro compagni di scuola cattolici, così come non lo sono stati nei nostri. Loro vogliono vivere la loro fede come noi viviamo la nostra, senza pregiudizi o convinzioni di superiorità dell'una o dell'altra. Certo, c'è chi, tra loro, ha trovato difficoltà ad ambientarsi a scuola o a fare amicizie, anche per via della sua fede, ma non ho trovato in nessuno l'istinto a chiudersi in se stessi e a non cercare il confronto, a non sperare di migliorare la propria situazione.
Alla domanda "perché tu e la tua famiglia siete venuti in Italia?", i ragazzi rispondono serenamente che sperano di trovare, qui, più possibilità di lavoro, per avere condizioni economiche più sicure di quanto non si prospettavano nel loro paese d'origine.
I giovani con cui ho parlato, quindi, sorridono. Danno l'impressione di guardare avanti con fiducia, senza pregiudizi o paure nei confronti della società in cui si trovano a vivere, a volte così diversa dalla loro.
Gli adulti ospitati alla casa d'accoglienza, invece, sono chiusi e rassegnati, o coltivano le loro speranze in privato, senza condividerle con altri.
Certo, questo comportamento è dettato anche dalla differenza d'età e dalle esperienze trascorse, ma credo sia fondamentale puntare sul sorriso dei giovani per migliorare la condizione degli immigrati nel nostro paese e, soprattutto, per migliorare il rapporto che gli italiani hanno con loro.
Mi sono riconosciuta in quello che ci dicevano i ragazzi: le parole "spero di andare bene a scuola, di farmi degli amici o di mantenere quelli che già ho, di trovare lavoro quando sarò più grande e di poter mettere su una famiglia mia, senza problemi economici troppo gravosi" sono universali, non conosco la nazionalità di chi le pronuncia.
Se è vero, come credo, che ogni società che guarda al futuro dovrebbe puntare sui giovani, sarebbe bene che la nostra Italia guardasse non solo ai giovani italiani, ma anche ai giovani stranieri, cercando un dialogo interculturale e interreligioso che porti a una crescita complessiva del paese in tutti i suoi aspetti e che limiti sempre di più gli episodi di violenza tra cittadini di nazionalità diverse.
Se non si approfitta presto dei sorrisi dei giovani c'è il rischio di vederli spegnere a poco a poco, ritrovando poi quei ragazzi, da adulti, uguali agli ospiti, italiani e stranieri, della casa d'accoglienza.

Valentina Consolo