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Uomini perbene e lupe del nemico

Si direbbe che di questi tempi nella sfera pubblica italiana ci sia un solo uomo di sesso maschile, cioè individuabile e individuato per le caratteristiche di genere, Silvio Berlusconi. Gli altri no. Il no non vale per tutti gli altri, naturalmente, basta pensare a quel che scrivono in questi giorni, e da anni, e molto spesso su questo giornale, alcuni uomini capaci di riflettere su se stessi e di lavorare per un'opinione civilizzata Ma il no vale, eccome, per gran parte di quelli che incarnano e plasmano il comune sentire "per bene": politici, editorialisti, conduttori televisivi. La mia impressione è che moltissimi di loro (e vari amici, compagni o ex, giovanotti sparsi) preferiscano accantonare il fatto di essere maschi; che scrivano e parlino sentendosi per così dire al di sopra del proprio sesso - come fossero appena usciti dal bosco degli smemorati, o da un limbo dove le contraddizioni assomigliano, più che a uno scontro, a un minuetto. Ammesso che ci siano. Ma non si sa.
Nelle centinaia di discorsi che voi uomini per bene avete dedicato a Berlusconi, non ho trovato niente, proprio niente, sul modello di mascolinità e di relazione uomo/donna in cui vi riconoscete, salvo gran dichiarazioni di paritario rispetto per quelle che lavorano, tirano avanti la famiglia, curano i vecchi genitori e confortano il marito in crisi: pura aria anni Cinquanta (ma il tocco acido è per voi, non per loro, di cui ammiro la maestria).
Tanto meno ho capito qualcosa sui modi in cui vivete l'essere uomini in un mondo di clan stile Chicago boys, sulle difficoltà, fallimenti (e successi) che incontrate provando a essere belle persone di sesso maschile. Non si richiedono tranches autobiografiche, solo qualche segno di vita della vostra esperienza di uomini. Noi donne lo chiamiano discorso situato.
Vorrei almeno sapere cosa avete in mente quando, oggi, parlate di donne. Per esempio, io non riesco a vedere una differenza qualitativa fra il dire "le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie (...) che conosciamo e rispettiamo", e il dire: "tutte puttane, tranne mia mamma e mia sorella". E mi preoccupa, perché non si tratta soltanto di una riedizione della vecchia dicotomia buone/cattive, madonne/puttante, che già sarebbe grave.
Introducendo il discrimine dell'appartenenza, si riproduce la costruzione simbolica secondo cui una donna è sempre di qualcuno, che sia il marito o che sia il partito. Per questo negli anni Settanta scandivamo lo slogan "io sono mia", che oggi suona estremista e disattento al valore delle relazioni, ma allora era necessario e di grande buon senso. Il buffo è che nelle vostre intenzioni una donna dovrebbe compiacersi di quel vostro riconoscimento d'appartenenza, perché assicura tutela della dignità, fiumi di firme agli appelli, compagnia abbondante ai cortei. E un certificato di rispettabilità: dire "le conosciamo" equivale a dire "garantiamo per loro".
E le altre? Donne di nessuno (cioè di tutti) o in alternativa donne del nemico, prezzolate, indecenti? Vittime, per i più clementi, meretrici per i più accalorati. Qualcuno le ha definite "le lupe di Arcore" - leggevo, e non volevo crederci. È vero, si tratta di una citazione letteraria, La Lupa è quella di Verga, che "si spolpava" gli uomini "in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse". Ma letteraria o no, resta pesantissima.
Pur essendo una buona consumatrice di quotidiani, i pensieri più seri e lucidi su queste ragazze li ho trovati on line: per esempio sul sito dell'Università delle donne e su quello della Libreria delle donne di Milano, dove Luisa Muraro invita a tener conto della loro soggettività. Che è, penso, un composto instabile di sbruffoneria e paura, euforia e tristezza, senso di onnipotenza e vulnerabilità, astuzia e dabbenaggine, tenuto insieme da molta fretta. La nostra adolescenza e prima giovinezza erano diverse, ma forse non per questo aspetto.
Mi chiedo come mai dati di realtà così elementari sfuggano a donne e uomini che su altri terreni sanno pensare e dubitare. Le lupe di Arcore, andiamo! deve essere l'effetto "donna del nemico", o venduta al nemico, un meccanismo classificatorio cui sembra diffficile sfuggire. Ce ne sono esempi anche in società di alto senso civico. Fatte le dovute proporzioni, nella meravigliosa Danimarca, il solo paese al mondo a aver salvato la quasi totalità dei "suoi" ebrei, a guerra finita molti buoni cittadini si sono scagliati contro le giovani che si erano inamorate di un tedesco, o gli si erano prostituite: le "loro" ragazze, la parte più pregiata del corpo nazionale, aveva tradito!L'appartenenza protegge, sì, ma chi la rifiuta o trasgredisce lo paga caro. E non potrebbe essere diversamente, perché la contrapposizione fra le "nostre" e le donne degli altri è figlia della dicotomia belligerante noi/loro, in cui le donne possono soltanto essere usate, come vittime o come reiette: non perché siano pacifiche di natura, ma perché nelle guerre e similguerre, di sangue o di carta, al posto di comando e decisione stanno (alcuni) maschi. È un argomento in più contro chi nega il carattere politico delle relazioni uomo/donna.
Nel laido pasticcio di questi mesi, gli uomini che si preoccupano della dignità femminile si sentono probabilmente nostri paladini. Allora, siatelo davvero. Non ci serve che ci mostriate la vostra devozione attraverso lo smascheramento reiterato di Berlusconi - lo sappiamo (anzi, lo sapevamo) già. Non ci serve, e a qualcuna dà fastidio, il vostro sarcasmo sulle belle veline microvestite di Striscia la notizia, e così l'uso del triste termine "velinismo". Non ci serve essere lusingate, nè sentirci dire che siamo diverse. E così via. Ci serve che siate diversi voi: a partire dai dettagli - smettere di definire "gnocca" una bella ragazza, di denunciare il silenzio delle donne quando basta un giro on line e in libreria a smentirvi - fino a rendervi conto che quel che pensate di sapere sulle donne non ha proprio niente di universale.
Poi, potreste anche marinare il corteo. Ma se ci andate, non stupitevi se a un cartello con su scritto "io rispetto mia moglie", magari qualcuna ne affiancherà un altro: "e basta a farla felice?".


Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo