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Recentemente, parlando della disfatta di Kabul, in un empito retorico mi è capitato di scrivere che gli USA sono finiti, perché il paese non ha un presidente, dato che Biden, se mai è esistito, è stato annichilito dalla gestione della ritirata. Perché non ha un popolo ma due e in guerra tra di loro. Perché gli alleati se la stanno squagliando, perché la Cina sta vincendo la battaglia diplomatica e anche la competizione economica.

Proemio

Genova sabato 19 settembre 2009. Oggi è giorno di lutto per la democrazia: la manifestazione per la libertà di stampa è stata rinviata per non turbare la sceneggiata del cordoglio nazionale per la morte dei sei militari italiani uccisi insieme a 20 innocenti afghani. Il governo e il suo impresentabile presidente vi sta inzuppando il biscotto a piene mani perché rallenta la pressione dell’opinione pubblica e distrae dalla drammatica situazione in cui versiamo.


Ieri, esasperato da tanta improntitudine e falsità ho spedito a MicroMega il seguente pensiero che ora spedisco a voi. I toni e i contenuti sono volutamente contenuti per rispetto a tutti i morti e  perché in questa retorica senza senso trovo un atteggiamento diabolico e disumano.

La guerra non crea eroi, ma solo vittime e se qualche eroe è necessario, bisogna scegliere i 20 afghani "innocenti" che erano lì per caso e sono stati falcidiati, mentre i soldati italiani era lì armati per fare "il loro dovere", cioè occupare un Paese straniero che essi hanno consegnato nelle mani di un dittatore corrotto come Karzai.

Se sono eroi questi figli della fame e dell’ignominia, cosa devono essere le migliaia di persone innocenti bombardate senza discriminazione di sesso, di età, di colpa o di ragione? Chi piange questi morti inutili è complice della guerra ed è nemico della democrazia.

Il governo ha stabilito il lutto nazionale per lunedì e un minuto di silenzio: io non farò lutto e non faro silenzio perché rifiuto questa mistificazione nazionale. La moglie di uno dei morti ha detto di essere orgogliosa del lavoro di suo marito: ebbene, sono parole sue, non mie. Sia dunque orgogliosa anche della sua morte e domani, se ha figli, lo racconti loro e dica chi erano i "nemici" che hanno ucciso il padre e spieghi loro chi lo ha mandato e per quale motivo. Aggiunga che la presenza del padre armato ha contribuito ad estendere il potere dei talebani e di quelli che essi chiamano "terroristi".

Quale democrazia hanno difeso questi soldati, quella del corrotto Karzai o quella del corruttore e corrotto Berlusconi? In questi giorni di lutto nazionale, sospendo moralmente la mia appartenenza all’Italia e mi tiro fuori da ogni complicità da queste nefandezze, travestite da eroismo. Forse le mie parole che precedono e quelle che seguono susciteranno stupore e scandalo in qualcuno: ebbene, passi oltre e non se la prenda: sono infatti certo di essere nel giusto, in buona coscienza.


Di seguito il pensiero pubblicato su MicroMega il 18 settembre 2009.

Paolo Farinella, prete

La strage di Kabul e la strage della libertà di stampa

di Paolo Farinella, prete

Genova 18 settembre 2009 - . I titoli di quasi tutti i giornali, dei tg e dei commentatori sono unanimi: «Strage di Italiani in Afghanistan: 6 militari uccisi». Ecco il modo ideologico di leggere e dare false notizie per vere. La «strage» riguarda 20 afghani e 6 militari, tutti uccisi nello stesso istante e con le stesse modalità; poi vi sono oltre 60 feriti afghani e 4 militari italiani. I feriti italiani sono stati rimpatriati per le cure necessarie, gli afghani sono rimasti per strada e se non interviene Emergency restano lì ad aumentare il numero dei morti afghani.

A costo di apparire cinico (e non lo sono) non riesco a piangere questi morti «italiani», isolati dal loro contesto reale. Mi dispiace e sono addolorato che qualcuno debba morire così e per le loro famiglie che adesso avranno un vuoto esistenziale e affettivo che nessuno potrà riempire: non le parole d’ordinanza della retorica politica che subito ne ha fatto degli «eroi» in appoggio ad una politica miope, demenziale e incivile che pretendeva di esportare la democrazia con le armi e assicurare la sicurezza seminando morte tra la popolazione inerme afghana. Morti inutili, morti senza senso.

No! Non ci sto! I soldati morti sapevano che potevano morire (fa parte del loro mestiere), ma sono andati ugualmente per scelta e per interesse economico, cioè per guadagnare di più. So anche che molti vanno per il brivido della guerra, per dirla alla popolana, per menare le mani e sperimentare armi nuove e di precisione. Dov’è l’eroismo nell’uccidere sistematicamente, per sbaglio o per fuoco amico, civili che a loro volta sono vittime nel loro paese e vittime degli occupanti stranieri?

Dopo 8 lunghi anni di guerra, quali risultati ha portato la peacekeeping o la peacemaking? Se si chiama «peace» lo sterminato stuolo di mutilati, di affamati, di morti, come si deve chiamare la «guerra» o per dirla alla moderna la «war»? Prima che arrivassero Bush e i suoi valvassini in Afghanistan i talebani erano considerati «occupanti»; ora dopo 8 anni di occupazione occidentale, il popolo tifa per i talebani e potenzia le divisioni tribali che hanno portato ad un aumento di potere dei «signori locali della guerra » che hanno imposto la loro legge, aumentato la coltivazione del papavero e diffuso capillarmente la corruzione.

Dopo 8 anni di «peacekeeping» l’Afghanistan si trova con un presidente fantoccio, Karzai, corrotto e corruttore, che sta lì perché ha imbrogliato almeno un milione  e mezzo di schede elettorali, che per vincere e avere i voti dei capi tribù ha introdotto nel diritto «democratico», difeso dalle armi occidentali, il diritto del marito di stuprare, violentare, picchiare e anche uccidere la moglie e le donne in sua proprietà. E’ questo l’obiettivo per cui sono morti i militari italiani, inglesi, spagnoli, tedeschi, e americani? Ne valeva la pena!

Sono morti inutili, morti che dovrebbero suscitare vergogna in chi li ha mandati e lì li ha tenuti e anche in coloro che vi sono andati per scelta libera e volontaria per avere uno stipendio proporzionato. No! Non sono eroi, sono vittime come sono vittime i morti afghani, come sono vittime i talebani usati dall’occidente quando venivano comodo contro i Russi e da questi, a loro volta, armati quando servivano alla bisogna; mentre ora i beniamini di ieri sono i nemici di tutti.

I funerali di Stato di questi sventurati morti per nulla o per la vanagloria dei loro fantocci governanti, come i 19 morti di Nassiriya, sono a mio avviso l’appariscenza di una retorica vuota e colpevole perché incapace di fare politica e politica di pace. Il potere assatanato ha bisogno di carne da macello che poi copre con gli onori di Sato: tanto pagano sempre i cittadini «sovrani» che non contano nulla.

La strage di Kabul, in Italia, ha interrotto «la democrazia», facendo spostare la manifestazione a favore della libertà di stampa di sabato 19 settembre 2009 ad altra data. E’ il segno della mistificazione. Queste morti sono funzionali al governo che così raffredda la piazza, allontana un colpo di maglio sferrato dalla società e il presidente del consiglio, l’amico di Bush e Putin, riprende la scena, mostrandosi afflitto e piangente ai funerali «dei nostri ragazzi», espressione orrenda che nega la verità dei fatti e conferma le ragioni che vi stanno dietro: questi «ragazzi» sono militari di carriera che sono andati da sé in un Paese in guerra e sono andati armati. Non sono «ragazzi», sono consapevoli e responsabili delle loro scelte e delle loro morti.

Spero che i figli e le famiglie non me ne abbiano perché il modo migliore per onorare i morti è continuare a garantire i diritti di tutti, non solo quelli di qualcuno, creando le condizioni perché questi diritti possono essere esercitati. Un pilastro della democrazia è la libertà di stampa e la libertà totale di criticare il governo. La «strage» di Kabul ha colpito in Italia, a 4.000 km di distanza, uccidendo insieme agli innocenti Afghani e ai soldati italiani, quella democrazia che solo un pazzo poteva è pensare esportare. In compenso si è saputo uccidere la democrazia italiana: chi ha deciso di spostare la manifestazione del 19 settembre è diventato complice della strage di Kabul, estendendola fino a noi. Ora la guerra è totale.

Poveri morti, diventati la foglia di fico di un potere inverecondo che si nutre solo di rappresentazione  vacua e vuota, effimera e assassina. No! non faccio parte del coro.

Paolo Farinella, prete

Fonte: Associaizone Popoli Diritti Culture


Tratto dal n. 1330 del 18 giugno di “La nonviolenza è in cammino”, pubblicato sul quotidiano "Il manifesto" del 15 giugno 2006.

L'Afghanistan non è l'Iraq ma gli scenari di guerra si stanno sempre più sovrapponendo. Tanto da cominciare a preoccupare persino D'Alema, che pure conferma una nostra presenza militare sul territorio afghano. A ricordarcelo, oltre alle battaglie sono stati anche i rapimenti, che, per fortuna, a Kabul hanno avuto esiti meno drammatici. Ma la situazione non era ancora così degenerata.
È apprezzabile che il ministro degli esteri alla vigilia del suo viaggio negli Stati Uniti abbia ricordato l'ostruzionismo statunitense sul caso Calipari: "Ci saremmo aspettati la collaborazione americana con la giustizia italiana nella ricerca della verità e nell'accertamento delle responsabilità", annunciando che lo farà presente alla Rice. La coincidenza con l'imminente richiesta di rinvio a giudizio per Mario Lozano da parte dei magistrati italiani rende importanti le affermazioni di D'Alema. Soprattutto se paragonate a quelle dell'ex ministro della giustizia Castelli che si era accontentato, ringraziando, della risposta negativa da parte Usa.
Tuttavia non si capisce quale coerenza ci sia tra questa denuncia del ministro degli esteri e la sua promessa di rimanere a supporto degli americani in Afghanistan. L'uccisione di Calipari è stata giustificata dal comando militare americano con il fatto che in Iraq di guerra si tratta e quando c'è la guerra si spara, poco importa dove vanno a finire i proiettili. E anche al "fuoco amico" si è ormai avvezzi. Per di più a quei tempi all'ambasciata Usa di Baghdad c'era John Negroponte già sperimentato fautore di squadroni della morte sudamericani. A sostituirlo è arrivato da Kabul "l'afghano" Zalmay Khalilzad. Sarà pura coincidenza? Sicuramente i legami tra i due scenari sono molti e non solo per la presenza di al Qaeda.
Per questo l'ampliamento della missione Nato-Isaf nel sud dell'Afghanistan voluta soprattutto dagli Usa per sganciare gli uomini impegnati in Enduring freedom per utilizzarli in Iraq, non può essere assunta e appoggiata come normale avvicendamento.
Anche chi è stato sempre contrario a una missione militare in Afghanistan non può ingnorare i cambiamenti intervenuti dall'istituzione dell'Isaf con mandato Onu che non prevedeva nessun coinvolgimento della Nato. Quindi il primo snaturamento della missione avviene nell'agosto del 2003 quando la Nato assume il comando e il ruolo di leadership dell'Isaf. Dopo lo scippo Isaf della Nato ora si passa dal ruolo di peace-keeping (che doveva assistere l'autorità afghana ad interim a mantenere il controllo a Kabul e nei dintorni, poi esteso al nord del paese) a quello aggressivo di peace-enforcing.
Quindi restando in Afghanistan, e a maggior ragione accettando la richiesta Nato di aumentare il contingente o peggio ancora mandando i caccia, l'Italia entra in guerra, quella guerra che nelle regioni tribali pashtun è già realtà di ogni giorno. L'offensiva dei taleban non sembra destinata ad esaurirsi. Anzi potrebbe persino arrivare alle porte di Kabul. Cosa farà la Nato investita di Enduring freedom (la lotta al terrorismo)? Si alleerà con una gruppo tribale contro l'altro come hanno fatto gli Usa entrando direttamente nella guerra afghana? Il gioco è pericoloso e l'arrivo in massa delle truppe britanniche ripropone lo spettro del "grande gioco" che dovrebbe far riflettere gli occidentali. E anche l'Italia. D'Alema andrà a Washington con i ricordi del precedente viaggio del 1999 e del "successo" dell'intervento euro-americano in Kosovo. Anche i pacifisti si ricordano quei "successi", sarebbe bene che li ricordassero ogni giorno al ministro degli esteri.

Il Consiglio nazionale dell'Arci ha approvato all'unanimità un ordine del giorno sulla missione italiana in Afgfhanistan.

Siamo una associazione pacifista e nonviolenta.
Ci sentiamo dunque pienamente coinvolti dal dibattito che attraversa le istituzioni, la politica e la società civile, mentre si avvicina il voto in Parlamento sul rifinanziamento delle missioni militari all'estero.
Crediamo sia nostro diritto e dovere giocare un ruolo attivo in questa situazione delicata. Siamo convinti sia possibile affermare una discontinuità nella politica estera italiana, iniziare a portare fuori il nostro paese dalle logiche di guerra e di scontro di civiltà che hanno caratterizzato gli ultimi anni di governo.
Recuperare un ruolo attivo di pace, di disarmo, di giustizia è un primario interesse per il nostro paese, immerso in un Mediterraneo sempre più devastato da tensioni e conflitti.
In questo quadro evidenziamo un risultato importante raggiunto in queste ore, per nulla scontato: la decisione del completo ritiro dall'Iraq in tempi certi. L'aspra discussione sulla missione afghana non può oscurare l’importanza di questo atto, che rivendichiamo come il risultato dell'impegno del movimento per la pace.
Sul coinvolgimento italiano in Afghanistan manteniamo il giudizio che abbiamo con coerenza espresso in questi anni. L'invasione Usa dell'Afghanistan è stata illegittima e illegale, operata fuori e contro il diritto internazionale. La missione militare Nato, a cui l'Italia partecipa, non gode di copertura Onu. Al contrario, la missione militare Onu risponde al Comando Strategico Usa.
Molto ci sarebbe da fare per aiutare la popolazione afghana, ancora una volta schiacciata tra l'occupazione e il fondamentalismo, ma non ciò che si prepara: il coinvolgimento delle truppe straniere in un nuovo conflitto aperto.
Continuiamo a credere che i soldati italiani, esposti sempre più a gravi rischi, andrebbero riportati a casa. Prendiamo purtroppo atto che oggi non ci sono le condizioni perché la maggioranza decida il ritiro unilaterale della missione. In questa situazione, non crediamo di poterci limitare a manifestare il nostro dissenso chiudendoci in una posizione di pura testimonianza. Crediamo invece sia possibile che il voto parlamentare produca scelte e strumenti capaci di segnare una discontinuità e favorire una svolta nel prossimo periodo.
Vanno cancellate le scelte che il Governo Berlusconi aveva in programma: non deve aumentare la presenza militare né essere modificata in senso offensivo, e non deve essere inviata nelle zone di maggior tensione.
Chiediamo che non si rifinanzi Enduring Freedom.
Chiediamo che sia sancito l’impegno a una verifica di tutte le missioni militari, alla luce della loro compatibilità col dettato costituzionale e con la Carta dell’Onu, prevedendo il coinvolgimento della società civile.
Chiediamo che il governo si impegni ad aprire nelle sedi internazionali e in sede Nato una discussione sull’Afghanistan, per una nuova strategia ispirata alla risoluzione pacifica dei conflitti.
Crediamo che, su questa base, si possa ottenere un risultato che, sia pur parziale, permetta al nostro paese di fare un passo avanti.
Per questo ci impegniamo nei prossimi giorni, invitando tutti e tutte - fuori e dentro le istituzioni - a fare altrettanto.