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Articolo di Brenda Gazzar, giornalista indipendente, vive a Gerusalemme ed è corrispondente per "We News", tradotto da Maria Di Rienzo, tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006

Haifa, Israele. Nelle ultime settimane, Abir Kopty e Hannah Safran hanno protestato praticamente ogni giorno contro il conflitto in Libano e a Gaza.
Persino quando le temute sirene suonano, avvisando degli attacchi missilistici di Hezbollah, Abir Kopty, un'araba israeliana, e Hannah Safran, un'ebrea israeliana, restano sulle strade di questa città del nord, non lontana dal confine libanese, per chiedere al loro governo di fermare la guerra, di intraprendere negoziati e di scambiare i prigionieri.
Fondatrici di "Donne contro la guerra", gruppo che si è formato pochi giorni dopo l'inizio del conflitto tra Israele ed Hezbollah, le due pacifiste di lunga data fanno parte delle donne che tentano di mettere fine all'ultima ondata di violenza, che minaccia di investire l'intera regione.
"Non si tratta di chi biasimare di più, si tratta di fermare questa guerra", dice Kopty, portavoce di un'ong israeliana impegnata nella tutela dei diritti umani dei cittadini arabi del paese, "Non vogliamo vedere nessun cittadino ucciso da ambo le parti per una guerra evitabile. Non c'è alcun senso in quello che sta succedendo".

Tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006
L'indicibile tragedia che si sta svolgendo in questa sesta guerra tra Israele e il mondo arabo dovrebbe obbligarci a focalizzare la nostra attenzione su come potrebbe essere realizzata la pace in quest'area. I punti principali sono chiari, ma sono minacciati in particolare da coloro che smettono di pensare proprio quando ve ne sarebbe più bisogno. Questi punti sono:
1. Le risoluzioni 194 e 242 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che chiedono il ritorno dei palestinesi e il ritiro di Israele ai confini del 1967 (prima della guerra del giugno di quell'anno).
2. La risoluzione del Consiglio nazionale palestinese del 15 novembre 1988, che accetta la soluzione dei due stati.
3. La proposta avanzata dall'Arabia Saudita nel 2002 che Israele si ritiri entro i confini del 1967 in cambio del riconoscimento di tutti gli stati arabi.
Applicando questi punti si otterrebbero due stati tra loro confinanti, con Gerusalemme Est e la Cisgiordania (West Bank) che ritornano alla Palestina (Israele si è già ritirata da Gaza), le alture del Golan restituite alla Siria, e qualche problema minore di confine da risolvere, talvolta attraverso aggiustamenti creativi. Nessuna grande rivoluzione, solo buon senso.
Ma ci sono anche richieste minime e massime da entrambe le parti.
La Palestina ha tre richieste minime, non negoziabili: - uno stato palestinese secondo i punti 1 e 2 precedenti, con - Gerusalemme Est capitale, e - il diritto al ritorno, inteso come diritto ma negoziabile nella quantità,.
Israele ha due richieste minime, non negoziabili: - riconoscimento dello stato ebraico di Israele - entro confini sicuri.

Pubblicato su "Il manifesto" del 8 agosto 2006.

Sottrarsi al ricatto della Shoah e dare voce a un grido liberatorio contro la politica di Israele: sul manifesto del 3 agosto e su Liberazione del 4 Angelo d'Orsi propone questa sorta di «programma minimo» per la sinistra - intellettuali, politici, giornali e comuni mortali in grado di sottrarsi al «chiacchiericcio opinionistico» che ci martella con la sicurezza di Israele e in nome della Shoah giustifica la sua aggressività in Medioriente, la sua pulizia etnica verso i palestinesi e la sua arroganza verso l'Onu. A costo di alimentare il chiacchiericcio, mi permetto di dissentire fermamente. Prima che sul merito, su una pratica intellettuale che perimetra la sinistra coi picchetti, gerarchizza intellettuali e senso comune, identifica verità e razionalità senza nulla apprendere dallo scacco della ragione in cui sulla questione mediorientale tutti, intellettuali e ordinary people, siamo presi e persi.

Pubblicato su “La Stampa” di domenica 6 agosto 2006
Copia articolo pubblicato sul sito del Centro Sereno Regis di Torino

Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea.