2 ottobre: giornata internazionale della nonviolenza
- Movimento nonviolento
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L'Assemblea generale dell'Onu ha fissato al 2 ottobre di ogni anno la Giornata internazionale della nonviolenza. La data è stata scelta in quanto anniversario della nascita di Gandhi, ispiratore dei movimenti per la pace, la giustizia, la libertà di tutto il mondo. In una risoluzione approvata dai 192 Stati membri dell'Onu, su proposta del governo indiano, l'Assemblea invita tutti i paesi, organizzazioni e individui a "commemorare questo giorno per promuovere una cultura della pace, della tolleranza, della comprensione e della nonviolenza". È infatti con Gandhi che nasce la nonviolenza moderna. Certo, essa è sempre esistita, è "antica come le montagne", ma prima del Mahatma era sempre stata intesa come via personale alla salvezza, come codice individuale, come precetto valido per l'individuo. È solo con la straordinaria esperienza gandhiana, prima in Sudafrica e poi in India, che la nonviolenza diventa politica, strumento collettivo di liberazione.
Perchè digiunare?
- Don Mariano Piazza
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Manca l'accoglienza. C'è paura, pregiudizio, intolleranza. Muri ostili, sguardi diffidenti e cattivi. Centri di "accoglienza" come carceri, respingimenti colpevoli verso sofferenze note ma ignorate.
Obiezione di coscienza 2009
- Giancarla Codrignani
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Jean-Marie Muller : ascoltare la violenza
- Accademia Apuana della Pace
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Jean-Marie Muller. Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, è tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. È direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventù ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondò il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente)
Le violenza appare come l'ultimo mezzo di espressione a coloro ai quali le società ha rifiutato tutti gli altri mezzi per esprimersi.
Le violenza è l'ultima risorsa di coloro che sono esclusi da ogni partecipazione alla vita della società.
La violenza esprime allora una richiesta di riconoscimento, una volontà di vivere: "sono violento, quindi sono".
Questa violenza porta un po di vividezza nel grigiore dell'esistenza. Essa viene a rompere la monotonia del tempo che trascorre nella disoccupazione e nel vuoto dei giorni. Nello stesso tempo, le violenza è una maschera che nasconde degli esseri che errano, che soffrono, che si disperano.
Bisogna ascoltare e comprendere questa violenza come una pro-vocazione, cioè, secondo il significato etimologico della parola, come un appello.
La violenza ha le sue radici nell'angoscia e vuole essere una richiesta d'aiuto. La violenza vorrebbe essere una parola; essa è, quantomeno, un grido. Si tratta quindi di capire questa violenza, mentre è vano condannarla con un surplus di indignazione.
In definitiva, questa violenza è l'espressione di un desiderio di comunicazione, un bisogno di dialogo.
Spetta alla società capire questo appello.
Le delinquenza causa la rottura del legame sociale, ma essa ne è in primo luogo una conseguenza. A partire dal momento in cui un individuo, soprattutto un giovane, non trova nella società quel radicamento che struttura la sua personalità e dà un senso alla sua esistenza, egli si trova in una situazione di rottura. Se ha un insuccesso scolastico, si troverà senza lavoro e sarà privato di una vera cittadinanza. Nella maggior parte dei casi, la discriminazione etnica rafforza l'esclusione. È un ingranaggio. L'inciviltà è precisamente la conseguenza di una privazione di cittadinanza.
Le violenza permette tanto più di farsi riconoscere quanto più è proibita dalla società. Essa simboleggia la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato.
Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. Essi ritengono che non vi sia alcuna ragione di rispettare le leggi di una società che non rispetta i loro diritti. A coloro che la legge esclude da ogni tipo di riconoscimento, la violazione della legge appare il miglior mezzo per farsi riconoscere. In più, la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società iniqua, calpestando gli attributi di un ordine ingiusto, procura un piacere sottile, un godimento reale.
Per questo motivo, la violenza esercita un fascino su coloro che sentono la frustrazione e l'umiliazione di essere degli esclusi. La violenza rappresenta un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulle loro vite, di cui sono stati spossessati. Non è questo un mezzo degenerato, deviato, di accesso a una forma di trascendenza? Ogni tentativo di "moralizzazione" è destinato all'insuccesso. Peggio ancora, ogni stigmatizzazione non può che aggravare la situazione e rendere impossibile la riconciliazione. Più che uno sbaglio, essa costituisce un errore politico. La repressione poliziesca è una fuga in avanti che allarga la frattura sociale e allontana il ritorno alla pace. La "tolleranza zero" deve in primo luogo concernere i poliziotti incivili di cui i giovani dei sobborghi sono troppo spesso vittime.
Occorre riconoscere che, malgrado la retorica ufficiale, la nostra democrazia ha un cattivo rapporto con la sua polizia. Bisogna certo "ristabilire l'ordine", ma questo deve significare che bisogna in primo luogo "ristabilire la giustizia" in questi quartieri diseredati.
Sforzarsi di comprendere le violenza non significa "lasciar dire e lasciar fare". Al contrario, comprendere la violenza è il modo migliore per interdirla.
Ma soltanto se la società sarà capace essa stessa di dare un segnale forte di nonviolenza sarà possibile dare un significato all'interdizione della violenza. Questa violenza manifesta che coloro che vi si abbandonano non incontrano limiti; nello stesso tempo, essi domandano che si pongano loro dei limiti. Questi serviranno loro come un riferimento, che darà loro la sicurezza di cui hanno un bisogno vitale e permetterà di strutturare le loro personalità. Bisogna dunque rispondere alla violenza tentando di ristabilire la comunicazione. La cosa peggiore è rispondere a questa violenza con la violenza. È un formidabile segno d'impotenza da parte della società. Bisogna dunque rispondere a questa violenza mettendo in atto una strategia nonviolenta rivolta a creare degli spazi d'intermediazione, in cui dei mediatori potranno ristabilire la comunicazione fra questi esclusi e la società. Sarà allora possibile far prevalere il rispetto della legge.
Se la violenza è l'espressione di una parola che non ha potuto essere detta, nel momento in cui il delinquente potrà dire la sua violenza, sarà già in grado di governarla e di trasformarla. La parola libera dalla violenza. La mediazione deve mirare a permettere agli esclusi e ai delinquenti di riappropriarsi della loro vita per mezzo della parola. La parola ha una virtù efficiente. Mettere in parole - verbalizzare - le proprie sofferenze, le proprie paure, le proprie frustrazioni, i propri desideri, significa distaccarsene così da poter affrontare e gestire la realtà con la riflessione.
La vera sfida lanciata da questi violenti alla società è quella di decostruire la cultura della violenza che domina le nostra civiltà. È compito di tutti i cittadini impegnarsi nella promozione di una cultura della nonviolenza che permetta di inventare comportamenti e metodi che consentano una risoluzione umana degli inevitabili conflitti che costituiscono la trama della nostra vita collettiva.
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