• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Quando la 'culturà e la 'tradizionè giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni", pubblicato su “Voci e Volti della nonviolenza”, n. 70 del 27 giugno 2007.

Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione geografica. In realtà ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono i livelli di potere, il benessere, la possibilità di esprimere i propri bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualità, i comportamenti e le identità di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di socializzazione: poiché i ruoli e le responsabilità sono specificatamente culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere consapevoli della relazione di genere all'interno dei gruppi, il proprio e gli altri, mostra che le comunità non sono un armonioso insieme di individui con interessi e priorità comuni; le divisioni si disegnano ovunque lungo le linee dell'età, della religione, della classe e del genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune "categorie" di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar modo se si tratta di donne.

(traduzione di “The Drum Major Instinct”, sermone pronunciato nella chiesa battista di Ebenezer, Atlanta, il 4 febbraio 1968)

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 76 del 6 luglio 2007


Ogni tanto, immagino, tutti noi pensiamo in modo realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello che è il definitivo comune denominatore della vita: quella cosa che chiamiamo morte. Tutti noi ci pensiamo. E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: "Che cosa vorrei che dicessero?". E stamani lascio a voi la parola.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di dedicare la vita a servire gli altri.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di amare qualcuno.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulla questione della guerra.
Quel giorno vorrei che poteste dire che ho davvero cercato di dar da mangiare agli affamati.
E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita ho davvero cercato di vestire gli ignudi.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho davvero cercato, nella mia vita, di visitare i carcerati.
Vorrei che diceste che ho cercato di amare e servire l'umanità.

da "La nonviolenza è in cammino", n. 1299 del 18 maggio 2006

Contro il riduzionismo, la preziosa ricchezza della molteplicità.
Sono d'accordo con chi ha detto che dobbiamo applicare il metodo del consenso per prendere le decisioni, ma questo non per raggiungere unità forzate o sintesi omologatrici: io sono contrarissima a questi termini, che in ambito sociale e politico recano una pretesa per così dire "monoteista", ed impongono una uniformizzazione da cui io resto sempre fuori.
Naturalmente anche un generico pluralismo è un'altra trappola: perché non è assolutamente detto, ad esempio, che un paese dove ci sono otto partiti sia più democratica di uno dove ce ne sono quattro. Il problema sta nel fatto di stabilire nel partito l'unica forma della politica, mentre invece bisogna avere a cuore una molteplicità di forme.
Ad esempio i movimenti non sono, come dice qualcuno, "pre-politica": bensì sono altre forme della politica.
In una società complessa come la nostra non è più possibile avere una sola forma che interpreta la società, ed è necessario che i soggetti si organizzino secondo le proprie caratteristiche; la sfida, a mio parere, è quella di riuscire a gestire la molteplicità lasciandola molteplice, e non cedere al riduzionismo.

Breve un elogio della buona lentezza
Io sento molto forte l'urgenza di fare qualcosa per cambiare le cose per come stanno andando, ma al tempo stesso so che quando c'è un'urgenza bisogna essere lenti.
Ciò di cui avremmo più bisogno sarebbe distendere in un tempo ristretto un ragionamento calmo. Per esempio, noi donne elette in parlamento, che siamo riunite in un comitato, siamo state già sorpassate dalle decisioni che sono state prese rapidamente da quelli che si sono subito insediati perché sono attaccati al loro potere.
Per non parlare della possibilità di portare in parlamento le rivendicazioni come quelle ad esempio venute fuori in una giornata come quella di oggi. Arriva sempre tutto troppo tardi. E ci ritroviamo a fare i giochi di risulta.

(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1318 del 6 giugno 2006)

Mi sono avvicinato alla nonviolenza dal 1972, quando, a 25 anni, ho cominciato a capire, durante un convegno nazionale semi-clandestino di Lotta Continua a Rimini, il suicidio umano e culturale della prospettiva della "guerra di popolo", tipo Irlanda del Nord (Ira) o Paesi Baschi (Eta), che veniva proposta con sempre maggior insistenza da una buona parte del gruppo dirigente, forzando in senso insurrezionalista la lettura delle lotte di quegli anni (dai cortei della Fiat del '69, alle barricate delle imprese d'appalto di Marghera del '70, alle lotte dei carcerati e dei soldati, fino ai moti per Reggio Calabria capoluogo di regione). Così Lotta Continua tendeva ad assumere (ma per fortuna si è sciolta prima) i connotati di un partitino leninista, gerarchizzato, con un "servizio d'ordine" numeroso ed aggressivo, tradendo l'ispirazione anti-autoritaria e spontaneista (alla Rosa Luxemburg) con cui l'avevamo costruita anche a Venezia e Marghera nell'autunno del 1969.