Intervista di Cecilia Pennacini, pubblicata su "Il Manifesto" del 20/11/2008
L'Africa dei Grandi Laghi è ancora una volta teatro di una crisi profonda. Vari "signori della guerra" si stanno affrontando nella regione del Kivu: da mesi i soldati ribelli del generale Laurent Nkunda, un Tutsi congolese di lingua ruandese, combattono contro l'esercito della Repubblica Democratica del Congo sostenuto da milizie locali (tra cui i Mai Mai). L'organizzazione di Nkunda, il Congrès National pour la Defence du Peuple (Cndp), cerca i famigerati Interhamwe, gruppi hutu responsabili del genocidio ruandese del 1994. Ma la posta in gioco è più alta, riguarda il controllo politico ed economico di una regione importante, estremamente ricca di risorse minerarie. C'è chi dice che potremmo essere allo soglie di una seconda guerra mondiale africana, dopo il conflitto che solo pochi anni fa, tra il 1998 e il 2003, aveva fatto in quest'area tra i quattro e i cinque milioni di vittime.
È la stagione delle piogge, piogge equatoriali, violente, insistenti, che trasformano le strade in fiumi di fango e rendono difficili gli spostamenti e la vita quotidiana anche in tempi normali. La popolazione civile, uomini e donne con i loro bambini, braccata dai soldati vaga da mesi - dormendo all'addiaccio - per sfuggire ai saccheggi, alle violenze, alle uccisioni che vengono indiscriminatamente da ogni parte. Nelle ultime settimane il colera si è diffuso, mentre il cibo e le medicine scarseggiano persino nei centri sanitari. Le numerose organizzazioni di cooperanti e volontari presenti nella zona lamentano non tanto il bisogno di aiuti, ma l'impossibilità di raggiungere le popolazioni a causa dell'insicurezza e dei combattimenti in corso. La la missione dell'Onu in Congo (Monuc), che mantiene qui circa diciassettemila caschi blu arruolati in varie parti del "sud del mondo", assiste impotente mentre si cercano soluzioni diplomatiche. Ma tra i contrastanti interessi politici ed economici dei "potenti" e il semplice diritto alla vita e alla pace della gente comune ancora non si riesce a trovare un equilibrio, in una regione contrassegnata dalla complessità di una storia che l'Occidente per lo più non conosce.
Etnie, razze e tribù sono concetti abusati in Africa. Nel 1985 è stato pubblicato in Francia Au coeur de l'ethnie, a cura di Jean-Loup Amselle e Elikia M'Bokolo, (La Découverte, tr. it. L'invenzione dell'etnia, Meltemi, 2008), che affronta da una prospettiva radicalmente nuova la storia di questi concetti: gli autori, storici e antropologi, mostrano come molto spesso siano state le potenze coloniali a innescare processi di etnicizzazione che sfiorano l'invenzione. Lo storico francese Jean-Pierre Chrétien ha ripercorso nei suoi studi la storia delle categorie di Hutu e Tutsi: comparse nel periodo pre-coloniale sotto forma di classi sociali dedite rispettivamente all'agricoltura e alla pastorizia, vennero sottoposte dai coloni europei a un grottesco processo di reificazione, che finì con il trasformarle in gruppi razziali. Ne derivò un'escalation di conflitti e massacri, fino al genocidio del 1994, dove un milione di persone perse la vita a colpi di machete nel breve volgere di tre mesi. Nell'opera L'Afrique des Grands Lacs. Deux mille ans d'histoire (Flammarion, 2000), Jean-Pierre Chrétien ricostruisce la storia dell'intera regione nella prospettiva della "longue durée" a partire dal suo popolamento, attraverso la fase pre-coloniale e quella coloniale, per giungere alle contraddizioni odierne. È una prospettiva che illumina la genesi e il significato dei conflitti e delle contraddizioni che ciclicamente riemergono.
Il conflitto in atto nel Congo nord-orientale ripropone ancora una volta il conflitto tra Tutsi e Hutu, due gruppi che, come è stato molte volte sottolineato, hanno convissuto pacificamente per secoli. Nonostante la loro storia comune, nel 1994 è stato messo in atto in Ruanda un progetto di sterminio, e oggi a quattordici anni di distanza i Tutsi del Kivu sembrerebbero in cerca di vendetta. Come si è giunti a questa situazione?
C'è attualmente una crisi in questa area che fa riapparire i problemi delle relazioni tra il Congo e il Ruanda, ma anche tra Tutsi e Hutu in Congo, in riferimento al genocidio del Ruanda del 1994. Si sono sentite spiegazioni apparentemente semplici, che connettono le ripetute crisi di questa regione (Ruanda, Burundi, Congo) con un antagonismo etnico antico e ancestrale. La questione investe tanto gli storici quanto gli antropologi perché il fatto è che non esistono antagonismi naturali. Questo problema si è definito all'ombra della colonizzazione, nelle pratiche e nelle politiche coloniali: non sono certo gli europei ad avere inventato i termini Hutu e Tutsi, esistevano già prima, e dunque bisogna studiare lo scenario che precede la colonizzazione, andare indietro nel tempo, pronti a scoprire situazioni molto diverse da quelle dell'ossessione attuale per il genocidio. Essere Hutu o Tutsi oggi, nel 1950, nel XIX o nel XV secolo non vuole assolutamente dire la stessa cosa. Quel che la storia ci può offrire è la percezione di un processo dinamico, di una continuità ma anche di discontinuità e di molte diverse fratture.
Tuttavia la situazione dei Grandi Laghi appare oggi molto più complicata della semplice evocazione della questione Hutu-Tutsi. Per cercare di comprenderla abbiamo bisogno di re-inquadrare la storia della regione nella sua complessità.
Si, è proprio così. Si tratta di società che presentano una storia politica di antichi regni e una dimensione antropologica fatta di clan, lignaggi, credenze religiose, attività economiche come la pastorizia, l'agricoltura la metallurgia. Nella "lunga durata" possiamo osservare una regione dell'Africa, un altopiano situato tra i laghi (il Vittoria, il Tanganika, il Kivu, l'Edoardo e l'Alberto), che è stata popolata fin dall'inizio della nostra era da gruppi di lingua bantu. Non è stata una storia di invasioni successive, come ad esempio nell'Europa medievale. Al contrario, c'è stato un popolamento progressivo di agricoltori e pastori. La regione si situa tra le grandi foreste del bacino del Congo e le savane dell'Africa orientale. Circa tremila anni fa genti di lingua bantu venute dall'ovest incontrarono qui popolazioni venute dall'est, che parlavano lingue nilotiche. Nell'incontro, le popolazioni di lingua bantu riuscirono ad amalgamare tutti i gruppi fondendo magnificamente due differenti tipi di economia: un'agricoltura di piantagione (vari tipi di tuberi e leguminose) che si era sviluppata in ambiente di foresta, con un agricoltura di tipo cerealicolo combinata con l'allevamento del bestiame, tipica delle savane dell'est. Va notato che, sorprendentemente, la metallurgia del ferro era già presente a partire dal VII secolo avanti Cristo.
Nel suo libro lei descrive le diverse organizzazioni politiche che caratterizzarono il passato pre-coloniale. In alcune parti della regione sorsero dei regni raffinati, dotati di apparati burocratici, di funzionari, di capi e di corti, dove si celebravano rituali complessi e si sviluppavano le arti della musica e della danza. In che modo si è potuto ricostruire la vita e la struttura dei regni?
Le prime fonti scritte si occupano di questa regione solo a partire dalla metà del XIX secolo. Prima di quel momento per la storia politica dipendiamo dalle tradizioni orali, che hanno una loro profondità nel tempo, ma assumono un carattere via via più leggendario man mano che si risale a prima del XVIII secolo. Questa straordinaria ricchezza di tradizioni - che sono state conservate come un archivio - ci mostra tra il XV e il XVII secolo l'emergere dei regni, che consentono di superare le appartenenze di clan sulla base di strutture politico-religiose fondate su un culto iniziatico, diffuso in tutta la regione. C'erano capi, sudditi e un'aristocrazia. Ciascuno dei tre regni più importanti dell'area, il Buganda, il Ruanda e il Burundi, presentava una sua organizzazione particolare. L'opposizione Hutu-Tutsi è declinata in maniera diversa in Ruanda e in Burundi mentre è assente nel Buganda. Si trattava comunque di strutture complesse, segnate dalla disuguaglianza, con capi e sovrani da un lato e persone dalle quali ci si aspettavano prestazioni, tributi e beni dall'altra. Anche in assenza della scrittura e della moneta funzionava dunque un'organizzazione burocratica in grado di controllare la popolazione.
Che ruolo occupavano gli agricoltori e gli allevatori all'interno di queste strutture politiche? In Ruanda e in Burundi vennero denominati Hutu e Tutsi, mentre in altri regni come il Bunyoro si utilizzano i sinonimi Bairu e Bahima. In origine quali relazioni intercorrevano tra di loro?
In Ruanda e in Burundi furono create categorie sociali che distinguevano tre gruppi, i Tutsi, gli Hutu e i Twa. I Twa erano una piccola minoranza emarginata, dedita alla caccia, alla pesca e alla produzione della terracotta. Per quel che riguarda gli Hutu e i Tutsi l'immagine sociale è molto chiara: gli Hutu erano associati all'agricoltura e i Tutsi alla pastorizia, si distinguevano insomma per via di una vocazione per la zappa o per la vacca. Tuttavia queste attività venivano ampiamente condivise, non c'erano da una parte gruppi di pastori del tipo dei Masai e dall'altra gruppi di agricoltori del tipo dei Kikuyu. Hutu e Tutsi vivevano insieme, e le loro due attività erano associate attraverso varie forme di contratto. Era una sorta di sistema castale, ma a differenza di questo prevedeva matrimoni misti. Non si trattava di realtà stagne e impermeabili le une alle altre. Inoltre non sempre le aristocrazie erano tutsi e i sudditi hutu: in Ruanda solo una parte dell'aristocrazia era tutsi, ma la maggior parte dei Tutsi non erano aristocratici, mentre in Burundi i capi appartenevano a una categoria a parte, e non erano considerati né Hutu né Tutsi.
Tuttavia l'immagine offerta attualmente della dicotomia Hutu/Tutsi è ben diversa da quella che ci ha appena descritto, e sembra rinviare a all'idea di due gruppi etnici che evitano le unioni matrimoniali, rivendicando origini diverse. Come si è giunti a questa nuova concezione?
La transizione da quella complessa situazione al dramma attuale è passata attraverso il qui pro quo coloniale. Gli Europei arrivarono tardivamente in queste regioni alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Vi trovarono dei regni straordinari. Furono accolti nelle corti e poterono osservare la loro organizzazione, ne rimasero stupefatti e cercarono delle spiegazioni nel linguaggio antropologico della loro epoca. Bisogna ricordare la visione razziale tipica del XIX secolo. Gli esploratori pensarono di aver trovato una razza superiore, e dal momento che le aristocrazie delle varie corti presentavano dei tratti comuni che ricordavano gli Etiopi, si dissero "ecco, abbiamo trovato la risposta! La razza superiore che governa questa regione viene dall'Etiopia". Questa ipotesi, detta "camitica" (in sintonia con la linguistica ottocentesca che classificava le lingue utilizzando termini di derivazione biblica), postulò l'idea di una migrazione dal Vicino Oriente in Etiopia e di lì nei Grandi Laghi. Il qui pro quo si concretizzò nel pensare che tutti i Tutsi altro non fossero che quest'aristocrazia di origine straniera. Ma l'equivoco non restò confinato nelle menti degli europei, si diffuse largamente attraverso l'insegnamento e soprattutto attraverso i missionari, che vi aderirono completamente.
Dunque l'idea di una gerarchia di razze nella regione fu la proiezione di un fantasma razziale europeo, che la prima élite istruita fece propria, tenuto conto dei benefici che ne avrebbe poi tratto.
Se le etnie sono il frutto di una costruzione coloniale caratterizzata dalla logica del divide et impera - un fenomeno che si può osservare anche in altre parti del continente africano- per quale motivo dopo l'indipendenza non si sono prese le distanze da questa visione?
La confusione tra razza e classe segnò profondamente gli anni successivi all'indipendenza. La rivoluzione sociale ruandese del 1959-61 si fondò sull'idea che il popolo fosse per definizione Hutu e che i Tutsi fossero aristocratici di origine straniera. Questa visione produsse un clima di sospetto e paura reciproca che divenne un ossessione, poi sfruttata politicamente da alcuni estremisti hutu per mobilitare la massa sotto la minaccia costituita dai Tutsi fuoriusciti in Uganda. Qui ritroviamo un'ideologia ben conosciuta anche in Europa, cioè lo sfruttamento della xenofobia, dell'odio etnico o dell'odio razziale da parte di programmi politici estremistici.
Le società post-coloniali continuano a pagare un prezzo altissimo a causa dall'eredità del passato. Le trappole dell'etnicizzazione e del razzismo segnano profondamente gli scenari politici e riemergono in maniera inquietante anche nella crisi attuale. Come leggere l'evoluzione recente della storia?
La regione dei Grandi Laghi ha conosciuto numerose crisi e guerre civili: in Uganda negli anni '70, in Burundi e in Ruanda negli anni '90, in Congo dagli anni '90 a oggi. Ogni paese ha i suoi problemi e le sue eredità, ma ora si ha l'impressione che tutte queste crisi si siano amalgamate intorno ai fantasmi razziali e questo è estremamente inquietante. Ciascun paese sta cercando delle soluzioni e molti segni positivi sono apparsi in Burundi, in Uganda, in Ruanda e in Congo, ma la minaccia è sempre presente, anche per via del fatto che l'amalgama delle crisi fa sì che esse si ripercuotano le une sulle altre.
Etnie, razze e tribù sono concetti abusati in Africa. Nel 1985 è stato pubblicato in Francia Au coeur de l'ethnie, a cura di Jean-Loup Amselle e Elikia M'Bokolo, (La Découverte, tr. it. L'invenzione dell'etnia, Meltemi, 2008), che affronta da una prospettiva radicalmente nuova la storia di questi concetti: gli autori, storici e antropologi, mostrano come molto spesso siano state le potenze coloniali a innescare processi di etnicizzazione che sfiorano l'invenzione. Lo storico francese Jean-Pierre Chrétien ha ripercorso nei suoi studi la storia delle categorie di Hutu e Tutsi: comparse nel periodo pre-coloniale sotto forma di classi sociali dedite rispettivamente all'agricoltura e alla pastorizia, vennero sottoposte dai coloni europei a un grottesco processo di reificazione, che finì con il trasformarle in gruppi razziali. Ne derivò un'escalation di conflitti e massacri, fino al genocidio del 1994, dove un milione di persone perse la vita a colpi di machete nel breve volgere di tre mesi. Nell'opera L'Afrique des Grands Lacs. Deux mille ans d'histoire (Flammarion, 2000), Jean-Pierre Chrétien ricostruisce la storia dell'intera regione nella prospettiva della "longue durée" a partire dal suo popolamento, attraverso la fase pre-coloniale e quella coloniale, per giungere alle contraddizioni odierne. È una prospettiva che illumina la genesi e il significato dei conflitti e delle contraddizioni che ciclicamente riemergono.
Il conflitto in atto nel Congo nord-orientale ripropone ancora una volta il conflitto tra Tutsi e Hutu, due gruppi che, come è stato molte volte sottolineato, hanno convissuto pacificamente per secoli. Nonostante la loro storia comune, nel 1994 è stato messo in atto in Ruanda un progetto di sterminio, e oggi a quattordici anni di distanza i Tutsi del Kivu sembrerebbero in cerca di vendetta. Come si è giunti a questa situazione?
C'è attualmente una crisi in questa area che fa riapparire i problemi delle relazioni tra il Congo e il Ruanda, ma anche tra Tutsi e Hutu in Congo, in riferimento al genocidio del Ruanda del 1994. Si sono sentite spiegazioni apparentemente semplici, che connettono le ripetute crisi di questa regione (Ruanda, Burundi, Congo) con un antagonismo etnico antico e ancestrale. La questione investe tanto gli storici quanto gli antropologi perché il fatto è che non esistono antagonismi naturali. Questo problema si è definito all'ombra della colonizzazione, nelle pratiche e nelle politiche coloniali: non sono certo gli europei ad avere inventato i termini Hutu e Tutsi, esistevano già prima, e dunque bisogna studiare lo scenario che precede la colonizzazione, andare indietro nel tempo, pronti a scoprire situazioni molto diverse da quelle dell'ossessione attuale per il genocidio. Essere Hutu o Tutsi oggi, nel 1950, nel XIX o nel XV secolo non vuole assolutamente dire la stessa cosa. Quel che la storia ci può offrire è la percezione di un processo dinamico, di una continuità ma anche di discontinuità e di molte diverse fratture.
Tuttavia la situazione dei Grandi Laghi appare oggi molto più complicata della semplice evocazione della questione Hutu-Tutsi. Per cercare di comprenderla abbiamo bisogno di re-inquadrare la storia della regione nella sua complessità.
Si, è proprio così. Si tratta di società che presentano una storia politica di antichi regni e una dimensione antropologica fatta di clan, lignaggi, credenze religiose, attività economiche come la pastorizia, l'agricoltura la metallurgia. Nella "lunga durata" possiamo osservare una regione dell'Africa, un altopiano situato tra i laghi (il Vittoria, il Tanganika, il Kivu, l'Edoardo e l'Alberto), che è stata popolata fin dall'inizio della nostra era da gruppi di lingua bantu. Non è stata una storia di invasioni successive, come ad esempio nell'Europa medievale. Al contrario, c'è stato un popolamento progressivo di agricoltori e pastori. La regione si situa tra le grandi foreste del bacino del Congo e le savane dell'Africa orientale. Circa tremila anni fa genti di lingua bantu venute dall'ovest incontrarono qui popolazioni venute dall'est, che parlavano lingue nilotiche. Nell'incontro, le popolazioni di lingua bantu riuscirono ad amalgamare tutti i gruppi fondendo magnificamente due differenti tipi di economia: un'agricoltura di piantagione (vari tipi di tuberi e leguminose) che si era sviluppata in ambiente di foresta, con un agricoltura di tipo cerealicolo combinata con l'allevamento del bestiame, tipica delle savane dell'est. Va notato che, sorprendentemente, la metallurgia del ferro era già presente a partire dal VII secolo avanti Cristo.
Nel suo libro lei descrive le diverse organizzazioni politiche che caratterizzarono il passato pre-coloniale. In alcune parti della regione sorsero dei regni raffinati, dotati di apparati burocratici, di funzionari, di capi e di corti, dove si celebravano rituali complessi e si sviluppavano le arti della musica e della danza. In che modo si è potuto ricostruire la vita e la struttura dei regni?
Le prime fonti scritte si occupano di questa regione solo a partire dalla metà del XIX secolo. Prima di quel momento per la storia politica dipendiamo dalle tradizioni orali, che hanno una loro profondità nel tempo, ma assumono un carattere via via più leggendario man mano che si risale a prima del XVIII secolo. Questa straordinaria ricchezza di tradizioni - che sono state conservate come un archivio - ci mostra tra il XV e il XVII secolo l'emergere dei regni, che consentono di superare le appartenenze di clan sulla base di strutture politico-religiose fondate su un culto iniziatico, diffuso in tutta la regione. C'erano capi, sudditi e un'aristocrazia. Ciascuno dei tre regni più importanti dell'area, il Buganda, il Ruanda e il Burundi, presentava una sua organizzazione particolare. L'opposizione Hutu-Tutsi è declinata in maniera diversa in Ruanda e in Burundi mentre è assente nel Buganda. Si trattava comunque di strutture complesse, segnate dalla disuguaglianza, con capi e sovrani da un lato e persone dalle quali ci si aspettavano prestazioni, tributi e beni dall'altra. Anche in assenza della scrittura e della moneta funzionava dunque un'organizzazione burocratica in grado di controllare la popolazione.
Che ruolo occupavano gli agricoltori e gli allevatori all'interno di queste strutture politiche? In Ruanda e in Burundi vennero denominati Hutu e Tutsi, mentre in altri regni come il Bunyoro si utilizzano i sinonimi Bairu e Bahima. In origine quali relazioni intercorrevano tra di loro?
In Ruanda e in Burundi furono create categorie sociali che distinguevano tre gruppi, i Tutsi, gli Hutu e i Twa. I Twa erano una piccola minoranza emarginata, dedita alla caccia, alla pesca e alla produzione della terracotta. Per quel che riguarda gli Hutu e i Tutsi l'immagine sociale è molto chiara: gli Hutu erano associati all'agricoltura e i Tutsi alla pastorizia, si distinguevano insomma per via di una vocazione per la zappa o per la vacca. Tuttavia queste attività venivano ampiamente condivise, non c'erano da una parte gruppi di pastori del tipo dei Masai e dall'altra gruppi di agricoltori del tipo dei Kikuyu. Hutu e Tutsi vivevano insieme, e le loro due attività erano associate attraverso varie forme di contratto. Era una sorta di sistema castale, ma a differenza di questo prevedeva matrimoni misti. Non si trattava di realtà stagne e impermeabili le une alle altre. Inoltre non sempre le aristocrazie erano tutsi e i sudditi hutu: in Ruanda solo una parte dell'aristocrazia era tutsi, ma la maggior parte dei Tutsi non erano aristocratici, mentre in Burundi i capi appartenevano a una categoria a parte, e non erano considerati né Hutu né Tutsi.
Tuttavia l'immagine offerta attualmente della dicotomia Hutu/Tutsi è ben diversa da quella che ci ha appena descritto, e sembra rinviare a all'idea di due gruppi etnici che evitano le unioni matrimoniali, rivendicando origini diverse. Come si è giunti a questa nuova concezione?
La transizione da quella complessa situazione al dramma attuale è passata attraverso il qui pro quo coloniale. Gli Europei arrivarono tardivamente in queste regioni alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Vi trovarono dei regni straordinari. Furono accolti nelle corti e poterono osservare la loro organizzazione, ne rimasero stupefatti e cercarono delle spiegazioni nel linguaggio antropologico della loro epoca. Bisogna ricordare la visione razziale tipica del XIX secolo. Gli esploratori pensarono di aver trovato una razza superiore, e dal momento che le aristocrazie delle varie corti presentavano dei tratti comuni che ricordavano gli Etiopi, si dissero "ecco, abbiamo trovato la risposta! La razza superiore che governa questa regione viene dall'Etiopia". Questa ipotesi, detta "camitica" (in sintonia con la linguistica ottocentesca che classificava le lingue utilizzando termini di derivazione biblica), postulò l'idea di una migrazione dal Vicino Oriente in Etiopia e di lì nei Grandi Laghi. Il qui pro quo si concretizzò nel pensare che tutti i Tutsi altro non fossero che quest'aristocrazia di origine straniera. Ma l'equivoco non restò confinato nelle menti degli europei, si diffuse largamente attraverso l'insegnamento e soprattutto attraverso i missionari, che vi aderirono completamente.
Dunque l'idea di una gerarchia di razze nella regione fu la proiezione di un fantasma razziale europeo, che la prima élite istruita fece propria, tenuto conto dei benefici che ne avrebbe poi tratto.
Se le etnie sono il frutto di una costruzione coloniale caratterizzata dalla logica del divide et impera - un fenomeno che si può osservare anche in altre parti del continente africano- per quale motivo dopo l'indipendenza non si sono prese le distanze da questa visione?
La confusione tra razza e classe segnò profondamente gli anni successivi all'indipendenza. La rivoluzione sociale ruandese del 1959-61 si fondò sull'idea che il popolo fosse per definizione Hutu e che i Tutsi fossero aristocratici di origine straniera. Questa visione produsse un clima di sospetto e paura reciproca che divenne un ossessione, poi sfruttata politicamente da alcuni estremisti hutu per mobilitare la massa sotto la minaccia costituita dai Tutsi fuoriusciti in Uganda. Qui ritroviamo un'ideologia ben conosciuta anche in Europa, cioè lo sfruttamento della xenofobia, dell'odio etnico o dell'odio razziale da parte di programmi politici estremistici.
Le società post-coloniali continuano a pagare un prezzo altissimo a causa dall'eredità del passato. Le trappole dell'etnicizzazione e del razzismo segnano profondamente gli scenari politici e riemergono in maniera inquietante anche nella crisi attuale. Come leggere l'evoluzione recente della storia?
La regione dei Grandi Laghi ha conosciuto numerose crisi e guerre civili: in Uganda negli anni '70, in Burundi e in Ruanda negli anni '90, in Congo dagli anni '90 a oggi. Ogni paese ha i suoi problemi e le sue eredità, ma ora si ha l'impressione che tutte queste crisi si siano amalgamate intorno ai fantasmi razziali e questo è estremamente inquietante. Ciascun paese sta cercando delle soluzioni e molti segni positivi sono apparsi in Burundi, in Uganda, in Ruanda e in Congo, ma la minaccia è sempre presente, anche per via del fatto che l'amalgama delle crisi fa sì che esse si ripercuotano le une sulle altre.