• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Salvagente di piombo (Eduardo Galeano)

Tratto dal n. 1390 della "nonviolenza è in cammino" del 17 agosto 2006 e pubblicato su "Il Manifesto" del 10 agosto 2006

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 agosto 2006. Eduardo Galeano è nato nel 1940 a Montevideo (Uruguay); giornalista e scrittore, nel 1973 in seguito al colpo di stato militare è stato imprigionato e poi espulso dal suo paese; ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura.]
I nostri paesi si modernizzano. Ora la linea ufficiale comanda di onorare i debiti (anche se disonorevoli), attirare investimenti (anche se indegni) e allargarsi al mondo (anche per la porta di servizio). E in realtà continuiamo a credere alle favole di sempre.
L'America latina è nata per obbedire al mercato mondiale, fin da quando il mercato mondiale non si chiamava così. Più male che bene, restiamo legati al dovere dell'obbedienza. Questa triste routine dei secoli cominciò con l'oro e l'argento e proseguì con lo zucchero, il tabacco, il guano, il salnitro, il rame, lo stagno, il caucciù, il cacao, la banana, il caffè e il petrolio. E che cosa ci ha lasciato tanto splendore? Ci ha lasciato senza presente nè futuro. Giardini diventati deserto, campi abbandonati, montagne sforacchiate, acque imputridite, lunghe carovane di infelici condannati a una morte anticipata, palazzi svuotati in cui camminano fantasmi.
Adesso è il turno della soia transgenica e della cellulosa. E si ripete la storia delle glorie fugaci, che al suono delle trombe ci annunciano lunghe disgrazie. Sarà muto il passato? Ci neghiamo l'ascolto delle voci che ci avvertono: i sogni del mercato mondiale sono gli incubi dei paesi che si sottomettono ai suoi capricci. Continuiamo ad applaudire il sequestro dei beni naturali che dio o il diavolo chi ha dato, e lavoriamo per la nostra propria perdizione, contribuendo allo sterminio della poca natura che ancora resta in questo mondo.

Argentina, Brasile e altri paesi latinoamericani stanno vivendo la febbre della soia transgenica. Prezzi tentatori, rendimenti moltiplicati.
L'Argentina è, da molto tempo, il secondo produttore mondiale di transgenici dopo gli Stati Uniti. In Brasile, il governo Lula si è esercitato in una di quelle piroette che rendono ben magro favore alla democrazia e ha detto sì alla soia transgenica, nonostante il suo partito avesse detto no durante tutta la campagna elettorale. Questo vuol dire pane per oggi e fame per domani, come denunciano alcuni sindacati rurali e organizzazioni ecologiste. Ma è noto che i paesani ignoranti si ostinano a non comprendere i vantaggi della biada di plastica e della vacca a motore, e che gli ecologisti sono guastafeste che sputano regolarmente sull'arrosto.
Gli avvocati del transgenico affermano che non è provato che siano dannosi per la salute umana. In ogni caso, nemmeno è provato che non lo siano. E se sono tanto inoffensivi, perché i fabbricanti di soia transgenica si rifiutano di scrivere sulle confezioni che vendono ciò che vendono? L'etichetta di soia transgenica non sarebbe la migliore delle pubblicità? E ci sono prove che queste invenzioni del dottor Frankenstein danneggiano la salute del suolo e riducono la sovranità nazionale. Esportiamo soia o esportiamo suolo? E non finiremo intrappolati tra le mascelle della Monsanto e delle altri grandi imprese dei cui semi, erbicidi e pesticidi ormai dipendiamo? Terre che producevano tutto per il mercato locale ora si consacrano a un solo prodotto per la domanda estera. Mi sviluppo dal di fuori, e del dentro mi dimentico. La monocultura è una prigione, lo è sempre stata, e ora con i transgenici lo è molto di più. La diversità, invece, libera.
L'indipendenza si riduce all'inno nazionale e alla bandiera se non si basa sulla sovranità alimentare. L'autodeterminazione comincia dalla bocca.
Soltanto la diversità produttiva può difenderci dai repentini crolli dei prezzi che sono il costume, il mortifero costume, del mercato mondiale.
Le immense estensioni destinate alla soia transgenica stanno devastando i boschi originari e espellendo i contadini poveri. Poche braccia vengono occupate in questo sfruttamento altamente meccanizzato, che in cambio stermina le piccole piantagioni e gli orti familiari con il veleno dei suoi fumi. Si moltiplica l'esodo rurale verso le grandi città, nelle quali si suppone che gli espulsi vadano a consumare, se hanno fortuna, ciò che prima producevano. E l'agraria riforma. la riforma agraria al contrario.

Anche la cellulosa è diventata di moda, in diversi paesi.
L'Uruguay, senza andare più lontano, sta cercando di trasformarsi in un centro mondiale di produzione di cellulosa per rifornire lontane fabbriche di carta di materia prima a basso costo. Si tratta di monocultura da esportazione, nella più pura tradizione coloniale: immense piantagioni artificiali che dicono di essere boschi e si trasformano in cellulosa con un processo industriale che riempie di rifiuti chimici i fiumi e rende l'aria irrespirabile. Qui hanno cominciato con due fabbriche enormi, una delle quali è già mezzo completata. Poi si è aggiunto un altro progetto e si parla di un altro e un altro ancora, mentre sempre più ettari vengono destinati alla fabbricazione in serie di eucalipti.
Le grandi imprese transnazionali ci hanno scoperto sulla mappa e si sono accese di repentino amore per questo Uruguay dove non c'è tecnologia capace di controllarle, lo stato concede loro sussidi ed evita le imposte, i salari sono rachitici e gli alberi crescono in un amen. Tutto indica che il nostro piccolo paese non potrà sopportare l'abbraccio asfissiante di questi giganti. Come spesso accade, le benedizioni della natura si trasformano in maledizioni della storia. I nostri eucalipti crescono dieci volte più in fretta che quelli della Finlandia e questo si traduce così: le piantagioni industriali saranno dieci volte più devastanti.
Al ritmo di sfruttamento previsto, buona parte del territorio nazionale sarà spremuto fino all'ultima goccia d'acqua. Questi giganti ci vanno a seccare il suolo e il sottosuolo. Tragico paradosso: questo è stato l'unico luogo al mondo in cui è stata sottoposta a plebiscito la proprietà dell'acqua. A grandissima maggioranza, noi uruguaiani abbiamo deciso, nell'anno 2004, che l'acqua è di proprietà pubblica. Non c'è la maniera di evitare questo sequestro della volontà popolare? La cellulosa, c'è da ammetterlo, si è trasformata in qualcosa di simile a una causa patriottica e la difesa della natura non risveglia entusiasmi.
Peggio: nel nostro paese, malato di cellulosite, alcune parole come ecologista e ambientalista si stanno trasformando in insulti che crocifiggono i nemici del progresso e i sabotatori del lavoro. Si celebra la disgrazia come fosse una buona notizia. Meglio morire di inquinamento che di fame: molti disoccupati credono che non ci sia altro rimedio che scegliere tra due calamità, e i venditori di illusioni sbarcano offrendo migliaia di posti di lavoro.
Ma una cosa è la propaganda e un'altra la realtà. Il Mst, il movimento dei contadini "sem terra", ha diffuso dati eloquenti che non valgono solo in Brasile: la cellulosa genera un posto di lavoro ogni 185 ettari, l'agricoltura familiare cinque posti ogni 10 ettari. Le imprese promettono il meglio. Lavoro a vagoni, investimenti milionari, stretti controlli, aria pura, acqua pulita, terra intatta. E uno si chiede: perché non mettono tutte queste meraviglie a Punta del Este, per migliorare la qualità della vita e stimolare il turismo della nostra principale stazione balneare?