Tratto da “Notizie minime della
nonviolenza in cammino”, n. 397 del 17 marzo 2008
Pubblicato su "Il manifesto" del 15 marzo 2008,
col titolo "La nuova rabbia di Lhasa"
"Il Tibet come la Birmania".
Un paragone da brivido sulla
schiena dei leader di Pechino, che anche per la repressione di quella rivolta
furono chiamati in causa e accusati di non fare abbastanza per ridurre a più
miti consigli i brutali e impresentabili "amici" della Giunta
militare birmana. Si accusò allora la
Cina di non muovere un dito per Aung San Suu Kyi e tanto meno
per i monaci buddisti birmani, per via di quell'enorme fantasma appollaiato al
suo confine occidentale, appunto il Tibet.
Il fantasma si è puntualmente
materializzato, evocato dalle Olimpiadi, che anche in questo caso si confermano
come un enorme catalizzatore di rivendicazioni per chiunque pensi di avere
conti aperti con la Cina
e usa questa grande occasione per condizionare una leadership che presta più di
un fianco, nella sua ansia di perfezione, ormai vicina alla paranoia, in un
circolo perverso che sta alzando oltre misura la pressione, nel momento in cui
si dovrebbero invece mantenere sangue freddo e nervi saldi.
Uscito da questo vaso di Pandora,
il fantasma Tibet si è però presentato con una forza che forse neppure Pechino
si aspettava. Anche se da qualche tempo aveva cominciato ad usare la sua
strabiliante ferrovia di fresca costruzione, la "più alta del mondo",
per spostare da Pechino a Lhasa truppe, oltre che nuove frotte di migranti
cinesi han ed eserciti di turisti. Questi ultimi soprattutto, portatori di
quattrini e modernità, dovrebbero, nella concezione cinese, strappare
all'arretratezza quella immensa regione, da secoli così vicina e legata a tutti
gli imperi del cielo cinesi ma anche così inquietantemente diversa e altra.
Le proteste e le rivolte di
questi giorni vengono paragonate per forza e ampiezza a quelle che in Tibet
deflagrarono nel 1989, dopo la morte del Panchen Lama e pochi mesi prima che
anche la rabbia cinese esplodesse a Tian'Anmen. L'uso brutale della forza e
l'imposizione della legge marziale misero a tacere tutti, tibetani e cinesi. I
quasi vent'anni trascorsi da allora hanno ulteriormente mutato il volto della
Cina, i cui governanti hanno puntato con ancor più decisione sullo sviluppo
economico e la produzione di ricchezza materiale come antidoto a proteste e
sommosse contro l'establishment dominante del Partito. In Cina l'obiettivo è
stato raggiunto, ma solo in parte. Ogni anno centinaia di migliaia di cinesi si
ribellano, divisi e sparsi, contro ingiustizie e sopraffazioni portato di un
sistema politico dalle sembianze ambigue. Un'altra Tian'Anmen però, dicono
tutti, non sarebbe più possibile.
Certo non poteva andare
diversamente in Tibet, dove lo sfrenato sviluppismo cinese ha portato miliardi
di dollari di investimenti, ma non certo l'"armonia" sbandierata
dalla leadership, e di sicuro non la pacificazione fra le due comunità, quella
tibetana e quella han che, come appare evidente anche al più superficiale dei
turisti, convivono a fatica e non riescono a trovare un comune terreno di
intesa nella vita di tutti i giorni. Anche perché per un cinese arrivato da
fuori, vivere in Tibet è difficilissimo, anche solo per le condizioni
ambientali. Molti non reggono (neppure l'attuale presidente Hu Jintao, spedito
a suo tempo a guidare il Partito in Tibet, riuscì ad adattarsi all'altitudine)
e c'è dunque un grande turn over stagionale. Chi decide di fermarsi, attratto
da migliori condizioni economiche, subisce una profonda mutazione fisica: il
cuore si ingrossa e ciò gli impedirà poi di andare a vivere altrove.
Se le notizie arrivate ieri
saranno confermate, è significativo che i violenti disordini di ieri a Lhasa si
siano originati, secondo le prime cronache, da un litigio fra commercianti
tibetani e han in un grande mercato. Questo lo sfondo più materiale dello
scontro. Poi ci sono la storia e le rivendicazioni di indipendenza.
Il Dalai Lama stesso da tempo
afferma di non sostenere più la causa della separazione dalla Cina ma di
battersi per una più grande autonomia che dia ai tibetani il diritto di
difendere la propria cultura e di praticare la loro religione seguendo i propri
dettami, non quelli imposti da Pechino, che peraltro disconosce l'attuale Dalai
Lama.
Resta tuttavia il fatto che i
disordini di questi giorni, come quelli dell'89, hanno preso l'avvio dalla
celebrazione di una data particolare, quella della fallita rivolta del '59
contro l'occupazione cinese seguita dalla fuga del Dalai Lama in India. Rivolta
che fu finanziata e sostenuta dalla Cia. Circostanza che molto compromise la
capacità di negoziare alcunché nel prosieguo. Il Dalai Lama, ammettendo qualche
anno fa il compromettente aiuto Usa, ha preso atto della necessità di cambiare
strategia e della impraticabilità storica di una separazione.
Pechino rifiuta di riconoscerne
l'autorità e bandisce l'esposizione della sua immagine in Tibet. I cinesi hanno
già imposto il "loro" Panchen Lama, facendo sparire il bambino
prescelto dai tibetani in esilio. Con tutta evidenza attendono la morte di
Tienzin Gyatso per imporre anche un proprio Dalai Lama, sicuri di risolvere
così il problema alla radice. Un calcolo rischioso, basato su una chiusura
assoluta, che potrebbe rivelarsi un errore tragico, per tutti. Dopo la
secessione riconosciuta del Kosovo, chi può dire cosa riserva il futuro? Ma la
grande Cina non è la debole Serbia.