Pubblicato su "INTERDEPENDENCE newsletter".
La pesante cappa di silenzio che dopo le Olimpiadi è scesa sul Paese delle Nevi sembra aver posto la questione tibetana al di fuori dell’agenda delle relazioni internazionali. Ci sono invece valide ragioni per vederla più che mai centrale negli scenari mondiali attuali. Vediamo perché.
L’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti segna una svolta netta nel ciclo storico iniziato con la fine della contrapposizione bipolare.
L’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti segna una svolta netta nel ciclo storico iniziato con la fine della contrapposizione bipolare.
Nel ventennio che ci precede la percezione che il dominio planetario della civiltà occidentale dovesse fare i conti con l’emergere di altre aree mondiali, spesso eredi di antiche civiltà, è stata letta all’interno di un paradigma conflittuale ereditato dalla fase precedente: è così avvenuto che il modello dello scontro ideologico abbia plasmato quello dello scontro di civiltà. Ciò a cui tale impostazione ha dato luogo è evidente: un pericoloso isolamento degli Stati Uniti rispetto a un contesto mondiale sempre più complesso, e l’impossibilità a svolgere quel ruolo che è conseguenza della storia del Novecento.
Si spiega in questo modo il fatto che l’America abbia dovuto, proprio attraverso al figura di Obama, compiere un ritorno alle sue premesse fondative, di cui non a caso si sottolineano le valenze interetniche e interculturali. Si spiega anche che la nuova strategia internazionale segni un evidente cambiamento rispetto al passato: non più lo scontro viene posto al centro, ma il rapporto e la cooperazione, in un mondo esplicitamente riconosciuto come multipolare. La svolta è evidente soprattutto rispetto al mondo islamico, ma altrettanto lo è verso la Russia, che le umiliazioni accumulate in questo ventennio stavano spingendo a una politica di potenza tale da ridar vita ai fantasmi della Guerra Fredda; ma non si può ignorare che sullo sfondo vi sia l’esigenza di dare uno stabile assetto ai rapporti con la Cina, il cui potere di condizionamento sulle economie occidentali costituisce da tempo un elemento ineludibile del quadro internazionale.
Parrebbe dunque che in uno scenario di questo tipo, dove gli elementi di contrasto cedono finalmente il posto a quelli di dialogo, la questione tibetana sia destinata a venire accantonata, ma almeno tre ragioni inducono a pensare diversamente.
La prima è che, proprio come i recenti eventi iraniani pongono in luce, la via del dialogo non esclude affatto e anzi implica la difesa di principi irrinunciabili. In particolare il ruolo mondiale degli Stati Uniti riceve tutta la sua legittimità morale da quell’ideale della democrazia a cui essi sono originariamente legati.
Il fatto che tale ideale sia stato in parte screditato all’epoca della Guerra Fredda dall’appoggio, in funzione anticomunista, a regimi ben poco presentabili, e più ancora in quest’ultimo ventennio dalla pretesa di imporlo ovunque con la forza, non muta i termini del problema. Gli Stati Uniti possono anzi oggi recuperare credibilità morale solo se sostengono a livello mondiale la democrazia, non come loro proiezione ideologica ma come autonoma e universale aspirazione dei popoli. Questo è il messaggio che viene dalla rivolta iraniana, scoppiata non a caso dopo che Obama, col discorso del Cairo, aveva riconosciuto il mondo islamico come interlocutore a pieno titolo nella ricostruzione degli equilibri mondiali.
Per questa medesima ragione non può essere messa da parte la questione tibetana. Nell’inevitabile tessitura dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, sostenere il Tibet vuol dire sostenere principi, come il rispetto delle minoranze, la libertà religiosa e in ultimo al democrazia, che in un mondo sempre più unificato appaiono ancora più imprescindibili. Non vuol dire osteggiare la Cina, ma cercare di integrarla più profondamente in un quadro di premesse comuni.
La seconda ragione, per cui la questione tibetana continua a essere attuale, è logica conseguenza della prima. Chi pensasse che in un mondo orientato al dialogo anziché alla contrapposizione la causa del Tibet debba venire accantonata mostrerebbe di aver capito ben poco della strategia politica del Dalai Lama. Il Tibet non deve essere inteso come causa di divisione, ma come la possibilità per la Cina di compiere un passo da cui a sua volta riceverà legittimità morale per il ruolo che le spetta nel mondo.
Non è sufficiente la potenza economica e politica per essere pienamente accettati, ma occorre la condivisione di principi comuni: sotto questo aspetto il Dalai Lama, accolto nel suo esilio in India e con ampio seguito in Europa e negli Stati Uniti, potrebbe aiutare la Cina a uscire dalla crisi di identità che la caratterizza, e a intraprendere una via autonoma alla democrazia in cui gli apporti culturali della sua tradizione possano collegarsi a ciò che nel mondo viene oggi maturando. La costruzione di una democrazia mondiale, nella consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e con l’ambiente, è la grande meta a cui gli sforzi di tutti devono essere rivolti.
La terza ragione di permanente attualità della questione tibetana è data dal suo profondo e ancor poco esplorato significato culturale. Nessuno forse come il Dalai Lama, almeno dopo Gandhi, ha rappresentato un’esigenza radicata nel cuore di questo nostro tempo: quella di conciliare la modernità con la tradizione.
Comincia a essere ben chiaro a chiunque, tranne a chi abbia chiuso la sua mente, che la scienza, la tecnica e l’economia sono forze immani, capaci di cambiare radicalmente la vita degli uomini, senza peraltro poter sciogliere i nodi più profondi della loro condizione di sempre; tant’è vero che contrapporle unilateralmente a ben più antiche percezioni e categorizzazioni dell’esistenza non ha dato frutti, se non di gettare nella lacerazione e nella solitudine. La stessa democrazia, come sistema politico che salvaguarda la libertà personale, è davvero viva quando la libertà non si pone come puro arbitrio, ma attinge a quelle profonde e vitali radici morali che le tradizioni spirituali dell’umanità custodiscono da sempre.
Questa via di conciliazione costituisce ad esempio, nonostante mille contraddizioni e soprattutto per merito di Gandhi, la grande ricchezza dell’India odierna; a fronte di un impoverimento spirituale che affligge l’Occidente, e tanto più a fronte dello sradicamento della tradizione compiuta prima in Russia e poi più radicalmente in Cina. Si intenda ovviamente questa via come ben distinta da quella dei fondamentalismi, che sono invece una falsa conciliazione, in quanto, mutando la tradizione in ideologia, la deprivano di quanto c’è in essa di più vivo e autentico.
Non si capisce insomma la grande simpatia di cui la causa del Tibet e la persona del Dalai Lama godono nel mondo se non si presuppone tutto ciò. Ovvero l’esigenza inestinguibile del mondo attuale di riconciliarsi con le sue radici spirituali.