«A Gaza stanno morendo i civili, i bambini, gli ammalati ricoverati in ospedale. A Gaza stanno morendo medici, infermieri, personale sanitario di ogni tipo, nostre colleghe e nostri colleghi, che fanno il nostro stesso lavoro e che, se non muoiono, vedono i loro ospedali bombardati giorno e notte». Erano da poco passate le 13.30, quando dall'interfono dell'Opa si sentono pronunciare queste parole.
A leggere il comunicato è Simonetta Maghelli, anestesista della Fondazione Monasterio andata due volte in missione nella Striscia di Gaza per operare bambini cardiopatici. Tutto l'ospedale in quell'istante si è fermato: personale medico, pazienti, familiari. Anche dal bar al piano terra hanno smesso di fare caffè per ascoltare quelle parole, a cui è seguito un toccante minuto di silenzio, che ha trascinato il pensiero dei presenti in quella terra devastata dalle bombe. È in questo modo che l'ospedale pediatrico apuano ha voluto dimostrare la sua solidarietà alle vittime dell'attacco militare in atto a Gaza, alla centinaia di morti, tra cui numerosi bambini, e alle migliaia di sfollati che aumentano di giorno in giorno, di ora in ora.
Il legame tra l'ospedale di Montepepe e Gaza d'altronde è forte. Dall'Opa, nel corso degli anni, sono partiti circa sessanta professionisti per missioni umanitarie nella Striscia. L'iniziativa, voluta dallo stesso personale medico che ha partecipato al progetto di cooperazione sanitaria internazionale e dalle varie associazioni culturali e di volontariato locali vicine alla causa, come Freedom Flotilla e l'Accademia Apuana della Pace, era quindi un modo per far sentire la propria vicinanza a quella terra e lanciare un grido, un po' di allarme e un po' di aiuto. Tutte le frontiere per arrivare in Palestina sono, infatti, chiuse e né medici né gli stessi palestinesi possono farci ritorno.
Presente ieri anche Shady Al-Quaddy, medico palestinese arrivato un mese fa nella provincia apuana per una stage di formazione all'Opa e bloccato adesso in questa terra. Dai piedi delle Apuane Shaddy quindi ha raccontato la sua storia con le lacrime agli occhi. «Nemmeno gli ospedali sono sicuri – dice - ho perso numerosi colleghi uccisi sotto le bombe mentre stavano lavorando, cercando di salvare vite umane. Non ci permettono di lavorare: ci bloccano i medicinali e l'arrivo di professionisti per la formazione. Per questo è molto importante quello che il team dell'Opa ha fatto per noi ed è importante che continui a essere forte il vostro sostegno».
Struggenti anche le parole del direttore dell'unità operativa di anestesia e rianimazione dell'Opa, Paolo del Sarto, che è andato tre volte nella Striscia di Gaza. «Il 45% della popolazione palestinese – racconta – è minorenne, quindi quando parlano di operazione chirurgica è assurdo. È inevitabile che vengano uccisi bambini, soprattutto se vengono presi di mira i luoghi frequentati da loro. Ma soprattutto è una popolazione che non ha accesso alle cure. Per arrivare a Gerusalemme Est i bambini devono avere un visto e, quando riescono ad averlo, devono uscire dalla Striscia soli perché ai genitori non è concesso uscire. Sono in gabbia e senza medicinali. Stiamo aspettando che sblocchino le frontiere per poter ripartire e aiutare quel popolo. Noi non vogliamo solo salvare le vite dei bambini, ma dare anche gli strumenti a quel popolo affinché riescano a farlo da soli». A parlare a nome delle varie associazioni invece c'era Michele Borgia, di Freedom Flotilla, che ha parlato dell'assurdità della definizione di "bombe umane", «quelle che avvisano prima di uccidere e distruggere case. Quella popolazione - aggiunge - sta lottando per resistere, per sopravvivere».
Anche chi non conosceva i fatti, ieri, è stato toccato da quelle parole uscite dall'interfono dell'Opa. «C'è un legame fortissimo tra il nostro ospedale e quella terra martoriata, un legame tra l'attenzione con cui ogni giorno, con il nostro lavoro, curiamo tanti pazienti anche pediatrici. Chiediamo pace in Palestina, pace in medio oriente, pace nel mondo intero».
Melania Carnevali
Fonte: Il Tirreno 24.07.2014