Pubblichiamo la postfazione di Anna Delfina Arcostanzo al libro “Gaza e l'industria israeliana della violenza” di Enrico Bartolomei, Diana Carminati, Alfredo Tradardi – edizione Derive Approdi, come contributo significativo a riflettere sul nostro approccio alle questioni geopolitiche.
Ieri in Ucraina carri armati contro manifestanti prò pace. Letto qc su ns giornali?
Vladimiro Giacche, Twitter del 29 settembre 2014
Recentemente, l'opinione pubblica italiana ha subito alcune brusche rivelazioni. Le cosiddette «primavere arabe» probabilmente avevano alimentato in lei la convinzione che un'enorme, variopinta, ondata democratica stesse spazzando via gli odiosi regimi di mezzo inondo dalle rispettive piazze. Sull'onda di questo entusiasmo, Euromaidan le era potuta sembrare una grande festa europea, più che l'incubatore di una delle più gravi crisi degli ultimi decenni sul nostro continente. Con il passare del tempo, tuttavia, è emerso in modo incontrovertibile che in Ucraina non si è verificata una risoluzione democratica e popolare, ma un colpo di Stato fascista applaudito dall'Unione Europea e finanziato dagli Stati Uniti.
Così, hanno potuto avere spazio le molte voci di intellettuali che denunciano, come fa Giacché, l'incredibile e colpevole disinformazione con cui la stampa e gli opinionisti politici italiani, la maggioranza si intende, riferiscono di quella crisi, travisandone sostanzialmente natura e significato.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quali e quante voci dovrebbero allora levarsi per commentare l'imponente impianto disinformativo e mistificatorio con cui l'opinione pubblica occidentale viene informata in merito alla questione israelo-palestinese.
La lettura delle pagine che precedono restituisce immediatamente e inequivocabilmente la dimensione di questo fenomeno.
Un'opinione pubblica che si svegliasse dalla visione onirica di una rivoluzione spontanea ed europeista in Ucraina, potrebbe scoprire, contemporaneamente, la natura segregazionista dell'«unica democrazia in Medio Oriente», e si vedrebbe costretta a sgranare il rosario dei suoi crimini di guerra impuniti.
Eppure, anche su quei crimini di guerra: «letto qc su ns giornali?».
E leggiamo qualcosa sui nostri giornali a proposito di quello che Jean Ziegler definisce da anni il «cannibalismo» dell'Occidente, o meglio, delle oligarchie del capitale finanziario1? Oppure sulla diretta responsabilità che la nostra economia ha nella morte per fame di decine di migliaia di persone al giorno, come in spaventose guerre di aggressione?
Diceva Ziegler presentando il suo libro L'odio per l'Occidente, nel 2010: «Ogni bambino che muore per fame è un bambino assassinato, ucciso dall'assurdità dell'ordine mondiale cannibalistico di oggi». «Intendeva dire: capitalistico?», gli chiede un interlocutore. «No, cannibalistico. In fondo è la stessa cosa»2. Le parole di Ziegler ci sbalzano dal nostro rassicurante torpore: chi siamo, dunque, noi occidentali? Siamo «i buoni» della Comunità internazionale, siamo la parte democratica del mondo, promotrice di pace e di sviluppo? Oppure siamo espressione di un ordinamento politico/economico che non esita a uccidere centinaia di migliaia di persone, per fame o per guerra, quando occorre; siamo «i cannibali» del resto del mondo?
Prendere coscienza del fatto che definiamo «democrazia» un'impresa coloniale che attua operazioni di pulizia etnica, o che abbiamo sostenuto un colpo distato agito da forze ultranazionaliste e neonaziste, non può esaurirsi in un atto di denuncia, ma deve suscitare un dibattito che consideri cruciale la questione del posizionamento e dell'identità del noi occidentali, nel panorama geopolitico contemporaneo.
E, al cuore di quel dibattito, prenderebbero posto le seguenti domande: cosa rende possibili tali mistificazioni? Quali retoriche soggiacciono a narrazioni di quel tipo? A che cosa sono funzionali tali narrazioni? Quale ordine del mondo legittimano, quali alleanze e equilibri preservano?
Porre domande di questo genere significa in buona sostanza, introdurre anche nell'analisi geopolitica quell'approccio riflessivo che segnò una svolta nella storia dell'antropologia, a partire dagli anni Ottanta, che rappresenta tuttora uno dei pilastri portanti del postmoderno e che tuttavia è incredibilmente latitante nell'analisi politica di più ampia diffusione.
Si pensi, ad esempio, assenza di problematizzazione, alla granitica omogeneità con cui è stato costruito ad usum occidentalis, tanto il topos del pericolo, quanto quello della sicurezza.
Da un lato, la categoria del pericolo è stata progressivamente portata a coincidere - almeno a partire dall'11 settembre 2001 - con quella del «terrorista islamico», si pensi al «lavoro» fatto in questo senso, in Italia, da Oriana Fallaci; dall'altro lato, la categoria della sicurezza è stata resa definitivamente sovrapponibile, per le nostre coscienze, al luogo comune della liberalità occidental/democratica.
Beninteso, un analogo processo di assimilazione dell'universo occidentale ai valori positivi di sicurezza, modernità, giustizia è rintracciabile sin negli assunti del pensiero positivista e ha legittimato, già a suo tempo, le più imponenti imprese coloniali, così come altri imperialismi storici. Tuttavia ciò a cui si è giunti ora è l'esito di una operazione sistematica di demonizzazione dell'alterità, o meglio, di qualsiasi alterità che si riveli irriducibile a mero feticcio esotista, all'interno di una strategia che investe ogni ambito della produzione culturale mainstream in Occidente.
La categoria del «terrorista islamico» è servita a sua volta, quale parametro inclusivo, in grado di fagocitare tutto ciò che dei paesi di area islamica non deve essere problematizzato, tutte le «ragioni degli altri» che devono essere occultate nel dibattito pubblico.
Tale categoria è dunque divenuta veicolo straordinario di ogni funzionale demonizzazione del dissenso proveniente da quell'area e, addirittura, come vedremo in seguito, riesce a fungere anche da pietra tombale per le ragioni della subalternità. Lo dimostra l'impassibilità con cui l'opinione pubblica, quella occidentale naturalmente, ha fatto proprio l'anatema che Stati Uniti ed Europa hanno gettato sulla vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2006 (vedi il secondo capitolo di questo libro); su un partito, si noti, democraticamente eletto nel corso di regolari elezioni, svolte sotto l'osservazione di inviati internazionali.
L'assenza di scandalo e di smarcamento dalla posizione statunitense, da parte dell'opinione pubblica occidentale, ha significato che l'assimilazione della resistenza palestinese, nel suo complesso, alla categoria del terrorismo - e dunque del pericolo - è perfettamente compiuta in seno alla Comunità internazionale.
Del resto, anche la narrativa pubblica sull'attentato di inizio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, richiamato nel quinto capitolo di questo libro, risulta espressione di questa scandalosa assenza di riflessività nell'analisi. Un'assenza di cui l'imponente manifestazione di Parigi è stata la rappresentazione plastica; centinaia di migliaia di persone hanno fissato, sulle strade di Parigi, la nostra storia stereotipata, hanno scritto con la loro marcia, che si tratta semplicemente dello scontro tra oscurantismo e libertà di stampa, tra civiltà dei lumi e civiltà dell'assolutismo, tra civiltà del diritto e civiltà della forza; insomma, in fin dei conti, tra Bene e Male, ça va sans dir.
Il fatto che questa lettura censuri totalmente la dimensione storica, per allinearsi alla fortunata narrativa delle differenze culturali di stampo essenzialista, risulta talmente evidente, da rendere ancor più scandaloso che si tratti della versione dominante. Una dimensione storica che consentirebbe, se non censurata, di ravvisare in quel tragico episodio il sintomo di un rivolgimento di proporzioni ben più ampie: la spinta all'emersione delle culture della subalternità globale contro la ragione coloniale che in tale posizione pretende di relegarle.
James Clifford, uno dei «padri» della svolta riflessiva in campo antropologico, ci ha da tempo messi in guardia dal perseguire una tale lettura dei fatti del mondo: «la differenza culturale non è più una esotica e stabile alterità; i rapporti io-altro sono faccende di potere e di retorica, piuttosto che di essenza»3.
Se si prescinde da questa consapevolezza, le coordinate storiche utili a individuare Noi e l'Altro sulla mappa della contemporaneità possono essere spazzate via con una marcia, una grande marcia, ad esempio, in cui l'Occidente si possa rassicurare, ancora una volta, trincerandosi dietro l'ostensione di un diritto democratico, quello della libertà di stampa, in questo caso.
E non è un caso che in prima fila, in quella marcia, comparissero alcune tra le personalità che più si avvantaggiano, a livello politico e strategico, delle categorie assolute descritte pocanzi: la Democrazia, il Terrorismo Islamico, e così via.
La presenza di Netanyahu, in questo senso, non può che risultare emblematica. Mai come nella Palestina storica, infatti, è stata condotta a fondo una campagna di essenzializzazione delle identità; mai come nel caso dei palestinesi, la negazione delle ragioni storiche dell'Altro ha comportato la riduzione di un popolo al suo vessillo onomastico e ha legittimato la distruzione della sua cultura materiale, così come la minaccia alla sua sopravvivenza fisica. Eppure, mai come nel caso della Palestina storica, tutto questo è reso indecifrabile, se non invisibile, dalla narrazione dominante, nella quale riescono a trovare copertura molte disonorevoli complicità europee e occidentali - ad esempio accordi di cooperazione militare con Israele - in quell'area.
Appare evidente, dunque, sino a che punto l'assenza di riflessività edifichi un impianto interpretativo che rende invisibile l'Altro, o meglio, che lo rende docile alla rappresentazione che di lui risulti, di volta in volta7 necessaria.
Una simile perversione della realtà dell'Altro non può essere superata che attraverso la presa di coscienza, della natura costruita del proprio oggetto di narrazione, assunto cardine della posizione riflessiva, o, per dirla in parole povere, con il riconoscere che quando un analista, un politico o uno studioso riferiscono in merito a una specifica situazione, non possono che farlo attraverso un atto narrativo che ha in certa misura «costruito» il suo oggetto.
Si tratta di applicare questo genere di assunto teroico all'analisi geopolitica, non per procedere a una speculazione decostruttiva fine a se stessa - è del tutto evidente - ma perché si tratta di un passaggio imprescindibile se si vuole recuperare la coscienza dell'effettiva contingente posizione del Noi e delle sue ragioni4.
Infatti, a essere deprivati oggi e per primi, della dimensione storica, siamo proprio noi occidentali, rappresentati attraverso operazioni tanto inverosimili quanto assolutorie: non affermiamo interessi strategici, ma esportiamo democrazia - è nostro dovere, del resto — non siamo complici degli statunitensi nel farlo, ma facciamo parte di una coalizione di volenterosi; non sono operazioni belliche, le nostre, ma missioni di difesa dal terrorismo.
Tuttavia, fare un'analisi di tipo riflessivo, non significa soltanto individuare le complicità, le connivenze, la realpolitik dei paesi occidentali nei vari contesti geopolitici; questo è un compito che le voci antagoniste o alcune Ong svolgono già, talvolta egregiamente. Fare un'analisi di tipo riflessivo significa piuttosto dotarsi di uno strumento metodologico in grado di far riemergere la dimensione storica del noi, nell'ambito di un discorso che ci riveli come soggetti portatori di ragioni e non di valori assoluti - ad esempio, per quanto riguarda il nostro paese, la ragione del mantenimento dell'alleanza/ sudditanza nei confronti di Usa/Nato.
Significa, inoltre, rinunciare alla posizione di soggetti «terzi», in diritto - e in dovere - in quanto tali, di orientare la storia a partire da valori metastorici dei quali ci siamo autoproclamati unici tutori: la giustizia, il diritto, la libertà, ecc.
Si tratta, in fin dei conti, dell'assunzione, nei confronti dell'Altro, di una posizione dialogica - due soggetti storici, con le loro rispettive ragioni - e non egemonica - il soggetto storico da un lato, e l'arbitro super partes, dall'altro - e di un riposizionamento del noi che appare improrogabile, tenuto conto dei radicali rivolgimenti geopolitici in corso.
Attraverso un'analisi compiuta a partire da una posizione non egemonica, l'occupazione israeliana della Palestina storica potrà emergere quale atto politico/militare nostro, al quale partecipiamo a pieno titolo in ragione della nostra convenienza e non - nella migliore delle ipotesi - di cui siamo complici in ragione della nostra incoerenza.
Gaza e l'industria israeliana della violenza, alludendo alla necessità di un approccio riflessivo, porta alla luce esattamente questo, la reale natura del nostro conflitto; conflitto che si sviluppa, prima ancora che sul violentato terreno mediorientale, sulla linea di demarcazione tra un noi riconoscibile negli statuti degli organismi internazionali, e un «noi» attore di politiche e interessi particolari. Sta tutto lì il conflitto «interno» della Comunità internazionale, la nostra schizofrenia: in questa irrisolta ambiguità che investe, purtroppo, anche le istituzioni degli organismi internazionali.
L'evidente svuotamento della loro autorità, come testimonia il rapporto De Soto citato nel secondo capitolo di questo libro, dipende esattamente da questa ambiguità irrisolta, iscritta nell'organizzazione stessa e nel funzionamento di tali istituzioni.
Si rende necessario, dunque, sopra ogni altra cosa, fare i conti con questo nostro conflitto e dotarci di strumenti teorici e metodologici per superare questa ambiguità, nell'ottica, almeno, di rilegittimare gli organismi internazionali nel loro ruolo di garanti dei valori in nome dei quali sono stati istituiti: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il rispetto dei diritti umani, il principio di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli, l'equità e l'uguaglianza ecc
Un'autentica cultura della pace, la cui formazione si rivela quanto mai urgente, non può prescindere, dunque, da una radicale rifondazione delle istituzioni della Comunità internazionale.
Il discredito (innegabile ormai) in cui si trovano oggi dipende, infatti, in larga misura dalla totale assenza della dimensione riflessiva nelle loro narrazioni, nelle loro scelte, nel loro operato.
Una cultura, pertanto, che si dovrà fondare su una rigorosa epistemologia del noi, sull'indagare cioè in che modo, a quali condizioni, con quali metodi e strumenti noi conosciamo - o misconosciamo - noi stessi, e, soprattutto, su uno spiccato orientamento riflessivo nell'analisi geopolitica.
L'adesione della Palestina allo Statuto di Roma, in questo senso, rappresenta un evento che la Comunità internazionale tutta deve riconoscere nella sua portata e istituisce, dal punto di vista simbolico, una linea di confine e di esame per la credibilità della Corte Penale Internazionale, estremo e fragile baluardo morale del noi occidentali.
È su linee di confine come questa, come nell'intreccio delle risposte alle domande sulle nostre narrazioni, che si scioglie l'interrogativo suscitato dalle parole di Ziegler.
Perché è esattamente lì, in equilibrio su quelle linee e al crocevia di quelle risposte, che stiamo e che ci posizioneremo noi.
Fonte: Postfazione al libro “Gaza e l'industria israeliana della violenza”, Enrico Bartolomei, Diana Carminati, Alfredo Tradardi – edizione Derive Approdi
1 J. Ziegler, La privatizzazione del mondo, Net, Milano 2005 e J. Ziegler, Destruction massive - Géopolitique de la faim, Seuil, Paris 2011.
2 G. Cadalanu, Ziegler:ecco come nasce l'odio per l'occidente, “La Repubblica” 1 febbraio 2010.
3 J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
4 Per una più organica trattazione del concetto di «geopolitica riflessiva», si rimanda a A. D. Arcostanzo, Noi, gli occidentali. Spunti per una geopolitica riflessiva nello specchio della Françafrique, "sintesidialettica.it" 27 aprile aprile 2014.