(Pubblicato su "Il manifesto" del 8 agosto 2006)
Condivido la collera di Angelo d'Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni '70. Né l'accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell'estrema sinistra degli anni '70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d'una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l'occupazione dei territori, né l'unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi della destra, fascisti inclusi. D'Orsi ha ragione anche nell'infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa.
Quanto all'Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L'antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c'era nell'ebraismo un grande «in più», la scoperta d'una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere. Risalgo negli anni perché se l'accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d'un Giuliano Ferrara. C'è nella coscienza di Israele il senso d'un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano. Angelo d'Orsi parla della lettera d'una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell'email d'una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l'una del paese dell'altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l'occupazione siriana ed è terrorizzata dall'offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un'enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno.
La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l'esistenza, dall'Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l'attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell'ultimo mese i missili di Hezbollah. Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l'altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all'una e all'altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la collera. Va a farle capire che anche l'arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l'invasione dell'Afganistan e poi dell'Iraq lo moltiplicasse, così come l'attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l'accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l'Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell'Onu che adesso invoca contro i libanesi. Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l'una dell'altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell'odio che si tira addosso, ma dell'errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l'agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d'Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l'amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c'è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico.
Condivido la collera di Angelo d'Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni '70. Né l'accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell'estrema sinistra degli anni '70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d'una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l'occupazione dei territori, né l'unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi della destra, fascisti inclusi. D'Orsi ha ragione anche nell'infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa.
Quanto all'Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L'antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c'era nell'ebraismo un grande «in più», la scoperta d'una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere. Risalgo negli anni perché se l'accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d'un Giuliano Ferrara. C'è nella coscienza di Israele il senso d'un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano. Angelo d'Orsi parla della lettera d'una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell'email d'una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l'una del paese dell'altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l'occupazione siriana ed è terrorizzata dall'offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un'enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno.
La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l'esistenza, dall'Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l'attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell'ultimo mese i missili di Hezbollah. Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l'altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all'una e all'altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la collera. Va a farle capire che anche l'arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l'invasione dell'Afganistan e poi dell'Iraq lo moltiplicasse, così come l'attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l'accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l'Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell'Onu che adesso invoca contro i libanesi. Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l'una dell'altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell'odio che si tira addosso, ma dell'errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l'agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d'Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l'amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c'è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico.