Non è più un rischio ma una certezza: gli sviluppi della crisi in Medio oriente sono del tutto fuori controllo. E così le loro conseguenze nel mondo intero. Saltano vertici, si spezzano alleanze politiche, le piazze mediorientali ribollono, i lupi islamisti tornano a colpire in Occidente, la diplomazia è messa all’angolo a suon di bombe. Tutto resta appeso al filo dell’imprevisto.
Così come imprevista è stata, nel suo orribile svolgimento, l’aggressione che ha segnato l’inizio della guerra, per gli aggrediti e perfino per gli aggressori stessi. A nessuna delle molte domande che si affollano esiste una risposta plausibile. Non sul futuro della striscia di Gaza, su cosa significhi annientare Hamas con il vasto retroterra fondamentalista – trasversale a stati, movimenti e comunità – che lo sostiene e alimenta e che non mancherebbe di riprodurlo in altre forme una volta smantellato dalle armi israeliane. Non sull’immagine internazionale di Israele, sempre più compromessa con il crescere delle vittime civili a Gaza, o sulla posizione dello stato ebraico nella regione mediorientale che, in seguito a una guerra spietata con costi umani esorbitanti e azioni irresponsabili, è sull’orlo di una conflagrazione generale. Nemmeno sulla stessa sicurezza di Israele, intesa come condizione stabile e non come perenne prova di forza nell’alterna condizione di assediati o di assedianti. Per non parlare di ciò che attende l’insieme della popolazione palestinese, ancora una volta in ostaggio di tutti.
Non vi sono risposte perché gli eventi travolgono gli stessi attori, nascono certamente da una storia che può essere ricostruita, ma non basta quella storia (con i torti e le ragioni che i contendenti possono desumerne) a spiegarli, né gli interessi materiali né i fattori culturali. La violenza finisce coll’emanciparsi dalle sue stesse cause e motivazioni, nutrita da una somma di esperienze singole e vissuti individuali che si agglutinano in una massa critica, sempre pronta a diventare massa di manovra. Così prende forma una violenza post politica, tanto più spietata quanto più priva di progetto, di bussola, di destinazione, sospinta solo da una retorica della vendetta. Quale seguito pensava Hamas di dare all’orrore di un massacro condotto all’insegna della disumanità e indicibile per i suoi stessi autori? Il seguito, assai prevedibile, non potevano che essere le migliaia di morti palestinesi vittime della reazione israeliana. Il cui sbocco e le cui conseguenze restano a loro volta immerse nella «nebbia di guerra», poiché nessuna reazione può mai rispondere a un disegno. Restando in balia degli eventi, delle passioni, del narcisismo della forza, al massimo di qualche effimero calcolo di opportunità. Condannare chi ha cominciato è banalmente doveroso, ma ha scarso effetto sul corso degli eventi e per le vittime, poi, tutte le vittime, è piuttosto indifferente. Soprattutto non mostra soluzioni.
I parametri, gli indicatori, i criteri con i quali, fino ad oggi, si analizzava il ginepraio medio orientale sono messi fuori uso. La geopolitica? Un ferro vecchio che si libra al di sopra di una realtà sfuggente, ben lontana dall’antica partizione delle sfere di influenza del 1967 o del 1973 e dalla eco dei movimenti di liberazione nazionale, radicata ormai nei successivi fallimenti di epoca postcoloniale e nelle vite che ne sono state travolte. Il diritto internazionale? Non vi è forza in campo che non abbia variamente calpestato questo pallido simulacro, ciascuno secondo la potenza di cui disponeva, malgrado risoluzioni, appelli, dichiarazioni di principio. I grandi interessi economici? Contano, certo, ma attraversano, aggirano, manipolano, ideologie e schieramenti, stati e antistati. Non esiste al mondo despota abbastanza sanguinario, o formazione terroristica sufficientemente efferata, da non poterci fare affari insieme, da non poter usare, all’occasione, contro i propri nemici e concorrenti.
In questa caotica incertezza cresce una polarizzazione assoluta nella quale ogni criterio di prudenza, ogni equilibrio e distinzione sprofondano senza rimedio. Vietato manifestare solidarietà con i palestinesi in più di un grande paese europeo, o inorridire per la catastrofe umanitaria prodotta dall’assedio israeliano a Gaza. Una messa al bando del diritto di protestare che, in democrazia, non ha precedenti. Certo, è noto che nello schieramento filopalestinese si annida non solo l’eredità dell’antisemitismo arabo, ma anche, in Europa e soprattutto in Germania, quell’antisemitismo che da sempre appartiene allo strumentario rosso-bruno e che non cessa di costituire una minaccia. Così come nelle file dei più esaltati fautori della risposta bellica israeliana, costi quel che costi, non è raro rintracciare suprematismo occidentalista e razzismo antiarabo. Le forme spietate dello scontro in corso non fanno che favorire queste torve inclinazioni.
Nel precipitare degli eventi fuori da qualunque capacità previsionale e razionalità politica c’è chi vagheggia, da una parte come dall’altra, la «soluzione finale». Che si tratti di cancellare Hamas, le aspirazioni del popolo palestinese nel loro insieme o, viceversa, lo stato di Israele. Fino a quando questa allucinazione senza esito non sarà scacciata per sempre dalle menti e dalle parole dei contendenti, la guerra continuerà a crescere su se stessa come unica e irrinunciabile condizione di esistenza.
Fonte: Il Manifesto del 19 ottobre 2023 - https://ilmanifesto.it/