Cari compagni del manifesto, poiché sono convinto che il vostro giornale possa e debba avere un ruolo importante nella vicenda referendaria sul diritto all'acqua, e poiché in questa vicenda ho deciso di starci, vorrei segnalare alcune questioni che dovrebbero essere tenute presenti nella campagna appena iniziata e che ci accompagnerà nei mesi prossimi. Con una premessa. L'avvio è stato straordinario: centomila firme raccolte in due giorni sui quesiti referendari. Questo significa almeno quattro cose: esistono grandi temi sui quali è possibile mobilitare le persone; la disaffezione per la politica è l'effetto di una politica drammaticamente impoverita; è possibile modificare l'agenda politica con iniziative mirate e fondate sull'azione collettiva; la leadership, pure nel tempo dell'immagine trionfante, non si identifica necessariamente con la personalizzazione o con il carisma, vero o presunto che sia. Nessun trionfalismo, d'accordo. È stata imboccata una strada difficile, e molti e forti interessi sono già in campo per bloccare questo cammino. Ma un risultato politico è già davanti a noi. Un tema nascosto nelle pieghe di un decreto è divenuto oggetto di grande discussione pubblica. I partiti cominciano a muoversi e, anche quando lo fanno in modo sgangherato, danno la conferma che siamo di fronte a un tema ormai ineludibile.
Un tema davvero globale che, senza retorica, riguarda il governo del mondo. Guerre dell'acqua minacciano il nostro futuro. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una «società idraulica», che consentiva un controllo autoritario dell'economia e delle persone.
Questa vicenda storica ci ricorda che il tema dell'acqua è sempre stato intrecciato con quello del potere, e proprio con poteri assai forti si devono ora fare i conti: questo referendum si distingue da tutti quelli che l'hanno preceduto perché riguarda l'assetto e la distribuzione del potere in una materia decisiva per la vita delle persone.
Ma, proprio perché stiamo parlando di un potere concreto, non ci si deve impantanare in una guerriglia ideologica. Bisogna smontare gli argomenti usati per difendere l'assetto attuale e quello progettato, con precisione e senza trascurare i dettagli, seguendo il metodo indicato da Corrado Oddi nel suo intervento di domenica su questo giornale. E allora:
a) sottolineiamo che non siamo di fronte alla tradizionale alternativa tra proprietà pubblica e proprietà privata. L'acqua appartiene ai beni comuni, che sono caratterizzati dal fatto di essere «a titolarità e tutela diffusa», il che vuol dire che sono le persone e i loro bisogni che individuano gli interessi da garantire: per l'acqua è necessario un regime giuridico coerente con questa sua natura. Questa non è una posizione astratta, ma si ritrova in disegni di legge presentati al Senato dalla Regione Piemonte e dal gruppo del Pd, dove viene proposta appunto una nuova classificazione dei beni. Questo è il mutamento qualitativo che il referendum vuole realizzare, indicando un orizzonte nel quale compaiono altri beni comuni, dall'aria alla conoscenza;
b) ricordiamo al ministro Ronchi che significa poco o nulla insistere sul fatto che la proprietà formale dell'acqua rimane in mano pubblica. Fin dalla grande ricerca degli anni Trenta di Berle e Means sulla scissione tra proprietà e controllo e dai contributi dei giuristi italiani sulla distinzione tra proprietà formale e sostanziale, è un punto acquisito che il potere sta nelle mani di chi ha l'effettivo governo del bene;
c) contestiamo che gli indubbi limiti di molte gestioni pubbliche obblighino a concludere che l'unica soluzione stia nel privato. A parte le smentite venute anche dalle privatizzazioni italiane, quando si è di fronte a un bene comune bisogna ripensare il pubblico non rifugiarsi nel privato. I quesiti referendari sono strutturati proprio in modo da indicare questa via, partendo dalla esclusione del profitto e considerando nuove modalità di gestione del bene, andando oltre l'ottica di uno Stato regolatore che si rifugia nella creazione di una nuova autorità indipendente;
d) prepariamo e diffondiamo materiali che trasformino ogni quesito referendario in una formula sintetica immediatamente comprensibile; che forniscano i dati sul costo dell'affidamento ai privati, con riferimento puntuale all'aumento delle tariffe; che analizzino casi concreti come quello di Aprilia; che indichino le soluzioni possibili, da aziende pubbliche rinnovate a modelli riconducibili alla logica delle comunità di lavoratori e utenti di cui parla l'art. 43 della Costituzione;
e) evitiamo l'ennesima puntata delle polemiche interne alla sinistra: quali che siano le posizioni ufficiali assunte più o meno strumentalmente dai partiti di opposizione, i primi due giorni di raccolta delle firme hanno anche mostrato una grande adesione degli iscritti a quei partiti. Il tema dell'acqua, come tutti i grandi temi, ha l'effetto benefico di rendere autonome le scelte politiche. Non immiseriamo questa occasione in inutili ripicche;
f) parliamo più di Bernard Delanoe, e della pubblicizzazione dell'acqua nella vicina Parigi, e meno di Evo Morales, con tutto il rispetto per la sua azione;
g) dobbiamo essere consapevoli che una battaglia è stata già vinta, che la campagna per la raccolta delle firme e poi quella referendaria produrranno una mobilitazione che, quale che sia l'esito finale, non lascerà le cose come prima.
Auguri a tutti noi.
Fonte: Il Manifesto del 27aprile 2010
Beni comuni, un buon inizio: 100.000 firme in due giorni
- Stefano Rodotà
- Categoria: Acqua
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