Dalla crisi siamo usciti - o stiamo uscendo, o comunque stiamo provando a uscire - con un'economia "più giusta"?
Per rispondere serve una breve analisi di ciò che è accaduto; la crisi è esplosa per eccesso di indebitamento privato, favorito da liquidità facilissima che è stata garantita da politiche monetarie accondiscendenti e dal costante perfezionarsi della finanza derivata, dei meccanismi di "distribuzione del rischio" e dalla trasformazione di banche e fondi in megastore finanziari, a cui si è affiancata l'enorme e pericolosa concorrenza della "finanza ombra". Da questa crisi si è provato ad uscire, dopo il fallimento di Lehman che ha dimostrato l'incapacità del mercato di trovare da solo le risorse per il proprio salvataggio, trasformando il gigantesco debito privato, dai mutui, agli asset tossici ad un'infinta quantità di titoli divenuti carta straccia, in debito sovrano, che ha finanziato tale gigantesco volume di carta straccia riconoscendogli un valore reale che non aveva affatto.
Come è avvenuto tale passaggio del debito?
Nella sostanza utilizzando quattro strumenti; la creazione artificiale di carta moneta, l'emissione di massicce quantità di nuovo debito pubblico, la riduzione della spesa pubblica corrente, l'aumento della pressione fiscale: questi quattro ingredienti naturalmente sono tra loro intimamente connessi. L'emissione di carta moneta serve a mettere sui mercati meno titoli di debito e quindi a pagare interessi, soprattutto a lungo temine, più bassi per il collocamento, la riduzione della spesa corrente, insieme alla spesa d'investimento, serve a indirizzare le risorse al pagamento degli interessi e a ridurre lo stock di nuovo debito, il carico fiscale è la fonte originaria delle risorse pubbliche; più debito, più imposte per coprirlo.
In questo modo si sono sgravati i titolari del debito privato - in sequenza, banche, assicurazioni, fondi, azionisti e obbligazionisti di tali società - e si sono appesantiti di tale debito i cittadini-contribuenti, colpiti da minore spesa pubblica, più imposte e sottoposti al rischio inflazione.
Era inevitabile tale scelta?
Forse sì, se non fossero intervenuti gli Stati i crac Lehman si sarebbero moltiplicati e data la capillare diffusione degli strumenti finanziari, generata proprio dalla stagione pre-crisi, dalla sbornia mercatista, il danno avrebbe avuto carattere sociale. Il trasferimento di una parte corposa delle prestazioni dello Stato sociale al mercato dei fondi, della previdenza e dell'assistenza privata, insieme all'indebitamento immobiliare e di varia natura generato dalla liquidità facile e dagli strumenti per la scomparsa del rischio hanno trasformato milioni di persone, in primis nelle economie avanzate, in soggetti dipendenti dai mercati finanziari. L'enorme inebriamento delle imprese nei confronti del sistema bancario ha reso tali imprese dipendenti dal prezzo di mercato delle banche stesse, che la speculazione era in grado di cancellare in pochissime ore, giocando deleterie partite ribassiste. Il salvataggio del debito privato era in tale ottica la strada per evitare una crisi sistemica, dalle chiarissime valenze sociali.
Quali conseguenze?
Ci sono conseguenze comuni a molte parti del pianeta e altre meno. I debiti sovrani, come detto, vanno finanziati e a pagarli sono i cittadini contribuenti; questo significa che sarà chiesto loro un duplice sacrificio in termini di minori prestazioni gratuite ("nulla è gratis") e in termini di prelievo fiscale. Sicuramente poi gli stessi cittadini e le imprese pagheranno i costi che il sistema bancario scaricherà su di loro per contribuire e ripagare il proprio debito e ricostituire il proprio patrimonio. L'enorme quantità di carta moneta determinerà un costante rischio di inflazione, destinata a colpire le capacità di consumi dei soggetti più fragili.
In questo senso le conseguenze tenderanno a colpire in maniera diversa le zone del pianeta; i paesi che importano beni i cui prezzi sono più sensibili all'inflazione - in questo caso i generi alimentari, le materie prime, l'energia, tutto ciò di cui si teme la scarsità - sono in costante tensione, tanto più se non si dismettono gli strumenti della finanziarizzazione. Saranno in difficoltà anche tutti i paesi che hanno debiti sovrani già pesanti e che devono finanziarsi in un mercato concorrenziale, dove tutti i paesi - anche quelli che in passato lo facevano in misura decisamente minore - si affacciano per collocare i propri titoli. Tra la Germania e la Grecia, è chiaro che il costo del finanziamento sia decisamente diverso.
La capacità di tenuta dell'inflazione dipende poi dalla volontà e dalla capacità dei paesi emergenti di tesaurizzare i propri surplus commerciali; tali paesi o continuano a sterilizzare l'inflazione aumentando le riserve in dollari e forse in euro o accettano di accelerare il sistema dei consumi intermi con conseguenze benefiche sulle bilance commerciali mondiali ma con conseguenze devastanti sulle condizioni ambientali del pianeta.
Cosa fare?
Non è certo possibile esprimere ricette di natura generale, ma alcune indicazioni possono essere tratte dalla crisi per evitare nuovi errori grossolani. In primo luogo occorre smontare una parte significativa della finanziarizzazione: non sono più ammissibili i turbomeccansimi delle vendite allo scoperto, senza alcuna regola e senza titoli sottostanti neppure a prestito, o della creazione costante di oggetti contundenti come i credit default swap, venduti senza titolo sottostante, o della continua proliferazione di derivati sintetici, partoriti da altri derivati in un'infinita catena speculativa. Questi strumenti sono ancora oggi tutti in vita, nonostante il Frank-Dodd Act, le raccomandazioni del Financial Stability Forum e le direttive europee; non è possibile perseverare nel giustificare la loro necessità per non privare il mercato di liquidità a breve, con un mercato inondato di dollari, con politiche monetarie non convenzionali e paesi che introducono forme di interdizione all'ingresso dei capitali speculativi non ha più molto senso addurre una simile giustificazione. Ci sono ormai troppi mercati puramente speculativi tenuti artificialmente in vita da questi strumenti.
In secondo luogo, è necessario sanare il debito non con liquidità artificiale, che ha bisogno appunto degli strumenti artificiali, ma con serie riforme fiscali e con un deciso miglioramento della qualità e della quantità dei consumi, compresi quelli di natura pubblica. Riforma fiscale significa prelevare la ricchezza dove è maggiormente addensata avendo chiara la fondamentale importanza del rapporto progressività/regressività. Il fenomeno più vistoso dello sviluppo economico degli ultimi trent'anni è stata la polarizzazione della ricchezza frutto in gran parte di finanziarizzazione e di progressivo avvicinamento alla tassazione "piatta". L'uscita dalla crisi non può non tener conto di ciò e, avendo l'obbligo della riduzione del debito, laddove le ristrutturazioni scatenano comunque tensioni colossali, bisogna impostare riforme fiscali che colpiscano la concentrazione della ricchezza e dei patrimoni. Naturalmente si tratta di un processo che ha bisogno di una visione culturale e politica collettiva perché altrimenti produce lacerazioni profonde, ma è evidente che le soluzioni alternative sono ben poche. I paesi con grande debito sovrano non possono finanziarlo a tassi impossibili e hanno quindi la necessità di ridurlo con una pressione fiscale che migliori la distribuzione del reddito e consenta un taglio decisivo allo stock complessivo per ripristinare l'avanzo primario. Del resto l'alternativa per tali paesi è la ristrutturazione, che significa in molti casi il crollo dei creditori dello Stato, dalle banche ai possessori di titoli, con la conseguente uscita pressoché totale dai mercati e dai circuiti del credito internazionale. Nel caso europeo, poi, due o tre default, dettati dall'effetto contagio, significherebbero la dissoluzione dell'idea stessa di Europa.
In terzo luogo, il sistema di mercato ha bisogno di meccanismi di remunerazione del valore che si svincolino dalla dinamiche del prezzo finanziario in quanto; occorre cioè un sistema di regole che stabilisca i limiti alla distribuzione in termini di dividendi azionari e di resa obbligazionaria degli utili generati sul versante della produzione. Occorre che gli utili siano in buona misura indirizzati al loro reinvestimento per scoraggiare la remunerazione finanziaria in senso stretto e favorire la remunerazione del capitale investito. Questo aspetto deve necessariamente essere correlato con forme di defiscalizzione complessiva del lavoro (non solo di decontribuzione) e con una definizione degli standard di patrimonializzazione bancaria e di accesso ai mercati borsistici regolamentati. Remunerare di più il capitale, premiare fiscalmente chi lo fa e stabilire per il sistema del credito incentivi in tale direzione in termini di misurazione patrimoniale e di accantonamento rischi, a cui unire una normativa sui mercati borsisitici che riporti le società di gestione dei listini in mano pubbliche e fissi requisiti di solidità e trasparenza chiaramente diretti a premiare l'ambito produttiva.