Pubblicato su Notizie minime della nonviolenza, n. 124 del 18 giugno 2007
Sappiamo che la realtà in cui viviamo, il capitalismo, di cui la globalizzazione è espressione, ha poco da offrire alla stragrande maggioranza dei popoli del Sud: vantaggiosa per una minoranza di persone, esige in contropartita l'impoverimento degli altri, in particolare delle società contadine, che costituiscono quasi metà dell'umanità.
Sappiamo che, su scala globale, la logica del profitto porta alla progressiva distruzione delle basi naturali della riproduzione della vita sul pianeta. Privatizzando i servizi pubblici, riduce anche i diritti sociali delle classi popolari.
Quello che troppo spesso ignoriamo, è che noi apparteniamo a questa realtà globalizzata da un lato come carnefici, dall'altro come vittime.
"Abitatori dei cosiddetti Paesi del benessere, non solo sappiamo di vivere una vita più agevole e garantita di quella della enorme maggioranza dei nostri simili, ma anche che questa nostra condizione deriva dalla sottrazione di risorse appartenenti ad altri popoli e alle future generazioni; e che questa rapina è continua e organizzata dalla progettazione di meccanismi che respingono enormi masse ai margini estremi del sistema in cui viviamo, li riducono a scarti della cosiddetta civiltà, a popoli in esubero, a serbatoi da cui trarre manovali di morte, soldati per le guerre imperiali, e regioni da trasformare in enormi discariche di rifiuti tossici. Noi siamo i consumatori, cioè i beneficiari di questo assetto mondiale, e del resto finiamo spesso per accettare come dogma la sua ideologia, per la cui attuazione, ogni tre o quattro anni, eleggiamo i nostri rappresentanti. E però, nello stesso tempo, noi sentiamo di appartenere al gruppo delle vittime. Dai mutamenti climatici alla distruzione dell'habitat, da una dura selezione di classe per cui aumenta la distanza fra ricchi e poveri, dalla parcellizzazione del lavoro alla sua delocalizzazione verso i Paesi dei bassi salari, dalla diffusione della precarietà nel mondo giovanile alle guerre fra civiltà che ormai travagliano enormi regioni, alla caduta di senso della vita, di un'etica forte e di una forte identità che reggevano - o sembravano reggere - le nostre modalità di esistenza sino a qualche anno fa, noi ci sentiamo spesso in balia di un'epoca che travolge buona parte del nostro assetto psichico e della nostra libertà" (Ettore Masina, da "Missione Oggi" dicembre 2006).
Sottrarci a questa doppia identificazione è la strada rappresentata dalla solidarietà internazionale, quella che esige di rendere pronta giustizia a chi soffre, perché il suo dolore è avvertito come nostro dolore, e quindi ci pare intollerabile. Una solidarietà che non può essere (come purtroppo viene veicolata e rappresentata dai grandi mezzi d'informazione) la carità pelosa fatta dei messaggini sms. Quell'occuparci del resto del mondo con un messaggio sms da 1 euro è un pò poco; serve, nel migliore dei casi, a mettere a posto la coscienza. L'elemosina umilia, anche quella promossa con le migliori intenzioni. Non sbaglia il proverbio che dice "La mano che riceve è sempre sotto la mano che dà".
Ma neanche la migliore solidarietà politica, in determinati contesti storici (che hanno un ruolo cruciale), riesce a rappresentare un interlocutore credibile per gli oppressi.
Pensiamo allo scontro fratricida tra Hamas e Fatah che si sta consumando in Palestina, nei Territori martoriati dall'occupazione israeliana che dura da 40 anni. In quel carnaio, in quel cumulo di rovine, nulla riesce più a distinguersi, quanto a progetti, futuro, speranza, orizzonte condiviso.
Certo ci sono le responsabilità, da chi questa guerra civile l'ha accuratamente cercata (Tel Aviv e Washington), a chi non ha fatto nulla per evitarla (le classi dirigenti del mondo arabo e l'Unione europea), per finire con gli errori imperdonabili commessi dalla stessa leadership palestinese.
Ma tutto questo non ci assolve, non ci può assolvere; ci lascia solo spettatori impotenti. Quel che fa più male, come ha scritto Angela Pascucci (nell'editoriale del 13 giugno de "il manifesto): "è la conferma che si finisce sempre, in più di un modo, per assomigliare al proprio nemico, soprattutto quando questo non intende assumere nessun'altra identità, perché anche solo la convivenza gli sembra una sconfitta e una minaccia.
Confrontarsi con un nemico che giorno dopo giorno erode la terra su cui vivi, minaccia la tua sopravvivenza, vive della tua paura, si sente rassicurato solo dalla tua debolezza, non può che indurre uno stravolgimento interiore, una paralisi dell'anima. Alla fine, qualunque diverbio, qualunque conflitto, anche quello con tuo fratello, si trasformerà in una sfida mortale per il controllo di quella terra su cui pensi di voler vivere e per la quale sei disposto a uccidere"
Sappiamo che la realtà in cui viviamo, il capitalismo, di cui la globalizzazione è espressione, ha poco da offrire alla stragrande maggioranza dei popoli del Sud: vantaggiosa per una minoranza di persone, esige in contropartita l'impoverimento degli altri, in particolare delle società contadine, che costituiscono quasi metà dell'umanità.
Sappiamo che, su scala globale, la logica del profitto porta alla progressiva distruzione delle basi naturali della riproduzione della vita sul pianeta. Privatizzando i servizi pubblici, riduce anche i diritti sociali delle classi popolari.
Quello che troppo spesso ignoriamo, è che noi apparteniamo a questa realtà globalizzata da un lato come carnefici, dall'altro come vittime.
"Abitatori dei cosiddetti Paesi del benessere, non solo sappiamo di vivere una vita più agevole e garantita di quella della enorme maggioranza dei nostri simili, ma anche che questa nostra condizione deriva dalla sottrazione di risorse appartenenti ad altri popoli e alle future generazioni; e che questa rapina è continua e organizzata dalla progettazione di meccanismi che respingono enormi masse ai margini estremi del sistema in cui viviamo, li riducono a scarti della cosiddetta civiltà, a popoli in esubero, a serbatoi da cui trarre manovali di morte, soldati per le guerre imperiali, e regioni da trasformare in enormi discariche di rifiuti tossici. Noi siamo i consumatori, cioè i beneficiari di questo assetto mondiale, e del resto finiamo spesso per accettare come dogma la sua ideologia, per la cui attuazione, ogni tre o quattro anni, eleggiamo i nostri rappresentanti. E però, nello stesso tempo, noi sentiamo di appartenere al gruppo delle vittime. Dai mutamenti climatici alla distruzione dell'habitat, da una dura selezione di classe per cui aumenta la distanza fra ricchi e poveri, dalla parcellizzazione del lavoro alla sua delocalizzazione verso i Paesi dei bassi salari, dalla diffusione della precarietà nel mondo giovanile alle guerre fra civiltà che ormai travagliano enormi regioni, alla caduta di senso della vita, di un'etica forte e di una forte identità che reggevano - o sembravano reggere - le nostre modalità di esistenza sino a qualche anno fa, noi ci sentiamo spesso in balia di un'epoca che travolge buona parte del nostro assetto psichico e della nostra libertà" (Ettore Masina, da "Missione Oggi" dicembre 2006).
Sottrarci a questa doppia identificazione è la strada rappresentata dalla solidarietà internazionale, quella che esige di rendere pronta giustizia a chi soffre, perché il suo dolore è avvertito come nostro dolore, e quindi ci pare intollerabile. Una solidarietà che non può essere (come purtroppo viene veicolata e rappresentata dai grandi mezzi d'informazione) la carità pelosa fatta dei messaggini sms. Quell'occuparci del resto del mondo con un messaggio sms da 1 euro è un pò poco; serve, nel migliore dei casi, a mettere a posto la coscienza. L'elemosina umilia, anche quella promossa con le migliori intenzioni. Non sbaglia il proverbio che dice "La mano che riceve è sempre sotto la mano che dà".
Ma neanche la migliore solidarietà politica, in determinati contesti storici (che hanno un ruolo cruciale), riesce a rappresentare un interlocutore credibile per gli oppressi.
Pensiamo allo scontro fratricida tra Hamas e Fatah che si sta consumando in Palestina, nei Territori martoriati dall'occupazione israeliana che dura da 40 anni. In quel carnaio, in quel cumulo di rovine, nulla riesce più a distinguersi, quanto a progetti, futuro, speranza, orizzonte condiviso.
Certo ci sono le responsabilità, da chi questa guerra civile l'ha accuratamente cercata (Tel Aviv e Washington), a chi non ha fatto nulla per evitarla (le classi dirigenti del mondo arabo e l'Unione europea), per finire con gli errori imperdonabili commessi dalla stessa leadership palestinese.
Ma tutto questo non ci assolve, non ci può assolvere; ci lascia solo spettatori impotenti. Quel che fa più male, come ha scritto Angela Pascucci (nell'editoriale del 13 giugno de "il manifesto): "è la conferma che si finisce sempre, in più di un modo, per assomigliare al proprio nemico, soprattutto quando questo non intende assumere nessun'altra identità, perché anche solo la convivenza gli sembra una sconfitta e una minaccia.
Confrontarsi con un nemico che giorno dopo giorno erode la terra su cui vivi, minaccia la tua sopravvivenza, vive della tua paura, si sente rassicurato solo dalla tua debolezza, non può che indurre uno stravolgimento interiore, una paralisi dell'anima. Alla fine, qualunque diverbio, qualunque conflitto, anche quello con tuo fratello, si trasformerà in una sfida mortale per il controllo di quella terra su cui pensi di voler vivere e per la quale sei disposto a uccidere"