Dopo la guerra ai poveri condotta da chi afferma di «creare ricchezza» spingendo ai consumi e all'emarginazione dei miseri anziché al lavoro, all'onestà e al risparmio in vista del futuro, si ha per forza di cose la guerra dei poveri. Compressi e schiacciati materialmente e spiritualmente, i poveri non possono fare altro che reagire per sopravvivere. Lo scontro tra ricchezza e povertà non è un incontro tra amici o tra fratelli che intendono aiutarsi o tra missionari e baraccati: è proprio uno scontro, una guerra, un'esplosione di violenza. La guerra si può evitare usando la ragione anziché la sete di potere.
Nel mondo, la sete di potere in questo XXI secolo ha solide radici: vince. I poveri restano poveri, anzi in vaste aree aumentano di numero; non solo, ma si accresce la loro povertà. I nuovi idoli, coloro che affermano di creare ricchezza, si arricchiscono a spese dei poveri, che si impoveriscono ancor più. Coloro che resistono alla spinta al degrado trovano a volte la strada della legge, altre volte diventano fuorilegge: manca loro il pane.
Cosa possono fare? Lo vediamo nelle nostre città. Non è un fenomeno astratto, perché sono sotto i nostri occhi gli stupri nelle strade, le aggressioni pubbliche da parte di bande di minorenni, la droga diffusa quasi ad ogni angolo, mentre qualche miserabile che cerca di mantenersi onesto vendendo cinture, borsette, collanine, ombrelli, viene cacciato dai poliziotti locali e dai politici che vogliono «ordine e sicurezza». Queste parole d'ordine, a guardar bene, ricordano anni lontani. Sembrano l'inizio di una sotterranea caccia all'oppositore, a cominciare dall'associazionismo caritativo.
Si tenga presente che quelle cinture, collanine, borsette e ombrelli per cui sono inseguiti i venditori più poveri, sono fatti esattamente negli stessi luoghi in cui sono fatti quelli che si vendono nei negozi dei creatori di ricchezza. Hanno un difetto per la società del denaro: costano cento volte di meno. Il cosiddetto libero mercato ha le leggi solo per i ricchi: chi non è ricco o non si adatta alle regole «liberali» va allontanato, anche con la forza. Nell'Ottocento nacque a Londra l'idea di un sindacato dei disoccupati, che nel secolo scorso è stato organizzato anche in Italia. Occorrerebbe un sindacato degli ultimi, ma siccome questi non votano, non hanno né istruzione né pane, non hanno diritto alla parola. La loro ribellione è quindi casuale, fuori da ogni regola. Fanno la guerra senza saperlo.
È guerra dei poveri l'aggressione dei giovanissimi studenti che picchiano i loro professori in una scuola del miserando quartiere di Ballarò, a Palermo; è guerra dei poveri la rete finale dei piccoli spacciatori di droga davanti alle discoteche dei ricchi a Milano; è guerra dei poveri quella dei kamikaze; è guerra dei poveri la clandestinità dei fuggiaschi cinesi costretti a lavorare come maiali in un porcile per produrre abiti e oggetti per le griffe internazionali; è guerra dei poveri l'occupazione delle case nei quartieri popolari. Non c'è bisogno di andare lontano per vederla, l'abbiamo in casa. «È più urgente che mai una solidarietà globale», titolava L'Osservatore romano riportando il pensiero di Benedetto XVI in visita negli Stati Uniti.
La solidarietà è il contrario della guerra: è comprensione e aiuto. È inutile che l'Onu condanni le violenze a Gaza, se nessuno pensa alla solidarietà. Ed è purtroppo inutile il richiamo del Papa se nessuno dei suoi importanti ascoltatori lo ascolta. I poveri non lo sanno, ma pur non volendo fare la guerra, sono in uno stato di guerra. Non lo sanno nemmeno le classi ricche, dominanti, egemoni, le quali affermano propagandisticamente di creare ricchezze mentre, al contrario, producono guerra: vincono, ma hanno sempre contro un nemico.
Lo sanno quei sacerdoti e vescovi che protestano a favore dei diseredati, ma sui quali cala il silenziatore della stampa oltre alla riprovazione dei politici che, prima, li hanno usati e ora li denigrano e cercano di metterli a tacere. Sempre seguendo il quotidiano vaticano si legge che il Papa ha detto che «la libertà non è solo un dono[.]» essa costituisce anche un «appello alla responsabilità personale [.]». E la difesa di questa libertà reclama «l'esercizio della virtù, l'autodisciplina, il sacrificio per il bene comune e un senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati».
Sono frasi caute, ma senza dubbio chiare. Oggi che, in Italia, vanno alla mensa dei poveri (lo denuncia la Caritas) perfino gli impiegati, cioè persone che hanno un lavoro, si capisce come dilaghi l'importanza di queste parole. Si rispetti la persona, dice Benedetto XVI. «Violando la dignità personale si alimenta il terrore». Se la povertà è, come è, uno stato di schiavitù, non si può pensare che facendo la guerra ai poveri anche i poveri non facciano la guerra.
Mario Pancera