La ricetta europea prevede austerità e ripresa ma ci porterà alla bancarotta. Le teorie keynesiane non sono più sostenibili. Bisognerebbe uscire dall'euro per opporsi ai diktat dei mercati. E per far rinascere la speranza. Che cosa è il "rigore-rilancio"? Si tratta essenzialmente di ciò che è stato proposto al summit G20 di Toronto, un programma che, contemporaneamente programma rinascita e austerità. Il primo ministro tedesco Angela Merkel ha sostenuto una vigorosa politica di rigore e austerità. Il presidente americano, Barak Obama, temendo di rompere la debole ripresa dell'economia globale e statunitense attraverso una politica deflazionistica, ha sostenuto un rilancio ragionevole. L'accordo finale è stato raggiunto su una traballante sintesi: il recupero controllato nel rigore e austerità temperata dallo stimolo. Il ministro dell'Economia francese, che non era ancora Presidente del Fmi, Christine Lagarde, poi ha arrischiato il neologismo «rilance» (contrazione di rigore e di rilancio). Così facendo seguiva le orme del consigliere del presidente Sarkozy Alain Minc il quale, alla domanda su cosa si dovrebbe fare nella situazione critica causata dalla
destabilizzazione degli Stati da parte dei mercati finanziari che questi stessi Stati avevano salvato dal collasso, ha prodotto questa formula ammirevole: si deve premere sia sul freno che sull'acceleratore.
Tuttavia, denunciare il doppio inganno di questo programma è una triplice sfida per me. Primo, parlare nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles - il tempio della religione della crescita - da una posizione iconoclasta, la decrescita, e di un argomento del quale oltretutto, di nuovo, non sono un esperto: la Grecia e la crisi del debito sovrano. Poi da una posizione di "studioso", dunque per utilizzare la distinzione e l'analisi di Weber, secondo l'etica della convinzione e non quella della responsabilità. Infine, sostenere un punto di vista paradossale: né rigore né rilancio! Nel rifiuto del rigore o dell'austerità posso almeno trovare alleati (anche se un'esigua minoranza) sia tra gli economisti, come Frederic Lordon, che tra i politici, come Mélanchon con il suo programma attuale. Il rifiuto della ripresa della crescita produttivista e l'uscita dalla religione della crescita è una posizione accettata da alcuni ambientalisti nel lungo
termine, ma completamente dimenticata per il breve termine. Ed è comunque a questa triplice sfida che tenterò di rispondere, considerando le due negazioni: quella della ripresa e quella del rigore.
Né rigore: negare l'austerità
La crisi greca si inserisce nel contesto più ampio di una crisi dell'euro e di una crisi dell'Europa. E naturalmente una crisi di civiltà della società dei consumi, vale a dire una crisi che mette in connessione una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi sociale, una crisi culturale e una crisi ecologica. La mia convinzione è che risolvendo la crisi dell'Europa e dell'euro, se non la crisi della civiltà consumistica, si risolverà la crisi della Grecia, ma che mantenendo la Grecia attaccata alla flebo, a colpi di prestiti condizionati attraverso cure sempre più severe di austerità, non si salverà né la Grecia né l'Europa e come risultato si saranno gettati i popoli nella disperazione.
Rigettare l'austerità presuppone l'eliminazione dei due tabù che sono alla base della costruzione europea: l'inflazione e il protezionismo. Il progetto della decrescita, vale a dire quello di costruire una società di abbondanza frugale e prosperità senza crescita, prevede la riabilitazione di due fenomeni che sono stati oggetto di politiche sistematiche nel passato: protezionismo e inflazione. Politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione del sistema produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, e quella del finanziamento del deficit di bilancio da un ricorso motivato alla emissione di moneta che produce quel «lieve innalzamento del livello dei prezzi» (bassa inflazione) sostenuto da Keynes, ha accompagnato la crescita eccezionale delle economie occidentali dopo la guerra, il periodo che viene indicato in Francia con l'epiteto de «i trent'anni gloriosi» - a ben vedere l'unico periodo della storia
moderna in cui le classi lavoratrici hanno goduto di un relativo benessere Entrambi gli strumenti sono stati vietati dalla controrivoluzione neoliberale e le politiche che le raccomandano sono oggi anatemizzate, anche se tutti i governi che possono vi fanno ricorso in modo più o meno occulto e insidioso.
Come tutti gli strumenti, il protezionismo e l'inflazione possono avere effetti negativi e perversi - e sono soprattutto questi effetti che vediamo oggi del loro uso vergognoso- ma è essenziale servirsene in maniera intelligente per risolvere in modo socialmente soddisfacente l'attuale crisi. Evitare il disastro di una austerità deflazionista, ma anche il disastro di una ripresa produttivista.
Per realizzare ciò è probabilmente necessario uscire dall'euro, se non è possibile correggerne le storture. Dobbiamo riappriopriarci della moneta che dovrebbe ritrovare il suo posto: per servire e non asservire. La moneta può essere un buon servitore, ma è sempre un cattivo padrone. Notiamo per prima cosa che la ripresa della signora Lagarde non è la ripresa produttivista di Joseph Stiglitz, è il rilancio dell'economia del casinò, essenzialmente quella della speculazione borsistica e immobiliare.
Infatti, per i governi in carica, lo slogan «e la ripresa, e l'austerità» significa il rilancio del capitale e l'austerità per le popolazioni. In nome del rilancio, d'altronde in gran parte illusorio, degli investimenti e quello totalmente falso dell'occupazione, si riducono o si sopprimono le imposte sociali, le tasse professionali e le imposte sugli utili d'impresa. Si rinuncia a tutte le tassazioni dei superprofitti bancari e finanziari, nel momento in cui l'austerità colpisce i salariati e le classi medie e basse, con la riduzione delle remunerazioni, delle prestazioni sociali e l'aumento dell'età legale di pensionamento. Per completare il tutto e preparare la mitica ripresa, si smantellano sempre di più i servizi pubblici, si privatizza a tutto spiano ciò che non lo è ancora stato, con una cancellazione massiccia di posti di lavoro (nell'istruzione, nella sanità, ecc) . Si assiste ad una strana competizione masochista all'austerità. Il
paese A annuncia salari più bassi del 20% subito, il paese B annuncia che farà meglio con il 30%, mentre C per non essere da meno si affretta ad aggiungere ulteriori misure più severe. Il tutto sommato alla onnipresente pubblicità che spinge a continuare a consumare sempre di più senza avere i mezzi e a indebitarsi senza avere prospettive di rimborso del debito, si dovrebb in qualche modo espiare la pseudo-festa consumista continuando a nutrirla nella morosità.
Questa stupida politica di austerità non può che portare ad un ciclo deflazionistico che farà precipitare la crisi che lo stimolo puramente speculativo non impedirà; e gli Stati ormai esangui non potranno più questa volta salvare le banche a colpi di migliaia di miliardi di dollari.
Questa politica non è solo immorale, è anche assurda. Avremo la bancarotta dell'euro se non dell'Europa e la catastrofe sociale. Aspettando questa eventualità, se gli oppositori della crescita fossero stati chiamati a gestire gli affari della Grecia, per esempio, quale sarebbe la loro politica? Il ripudio puro e semplice del debito, cioè la bancarotta dello Stato, sarebbe la cura da cavallo che risolverebbe il problema eliminandolo. Tuttavia, questa soluzione radicale, che non è da escludere e troverebbe il favore dei "decrescenti", rischierebbe di precipitare il paese nel caos.
Il problema, infatti, è che in pratica la crisi del debito degli Stati non è che un pezzetto del problema. La risposta teorica al solo problema del debito degli Stati che, anche per i più indebitati, è circa l'ammontare del Pil, è molto più facile che quella riguardante la soluzione del problema dell'inflazione globale dei crediti derivanti dalla speculazione finanziaria. La minaccia del rischio sistemico è tutt'altro che scartata. Per quanto riguarda il debito pubblico, la sua cancellazione rischierebbe di colpire le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli investitori che hanno dato fiducia al loro stato o che a loro insaputa si sono visti rifilare dalla propria banca e involontariamente investimenti complessi che includono titoli sospetti. Una riconversione negoziata (che equivale a un fallimento parziale), come è stato fatto in Argentina dopo il crollo del peso, o dopo una verifica, come proposto da Eric
Toussaint e da una coalizione di Ong per determinare la quantità abusiva del debito, è probabilmente preferibile. Si potrebbe anche provvedere al mantenimento delle garanzie per i piccoli azionisti e a un deprezzamento dal 40 al 60% per gli altri o di ricorrere a un taglio fiscale. Per cancellare il debito residuo, si potrebbe proporre un aumento delle entrate fiscali con un prelievo eccezionale sui profitti finanziari, così come si è fatto in Ungheria, e non sarebbe mal vista l'introduzione della tassazione progressiva con l'abbandono reale dello scudo fiscale e delle scandalose nicchie di rendita.
In una società della crescita senza crescita, che corrisponde grosso modo alla situazione attuale, lo Stato è condannato ad imporre ai cittadini l'inferno dell'austerità, prima di tutto con la distruzione dei servizi pubblici e la privatizzazione di ciò che è ancora possibile vendere dei gioielli di famiglia. In tal modo si corre il rischio di creare una deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. È proprio per evitare questo che si dovrebbe intraprendere l'uscita dalla società della crescita e costruire una società in descrescita.
Né rilancio: decrescere
Di fronte a questa minaccia, alcune anime belle, come Joseph Stiglitz, raccomandano le vecchie ricette keynesiane di rilancio dei consumi e degli investimenti per far ripartire la crescita. Questa terapia non è auspicabile. Non è auspicabile perché il pianeta non la può più sopportare, forse non è possibile perché, a causa del depauperamento delle risorse naturali, già in atto dagli anni 70, i costi della crescita (quando si è verificata) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività attesi sono pari a zero o quasi zero. Dovrebbero essere ulteriormente privatizzate e mercificate le ultime riserve di vita sociale e fatto crescere il valore di una massa invariata o in diminuzione di valori d'uso, per estendere di pochi anni l'illusione della crescita. Tuttavia il programma socialdemocratico, che è la ragione sociale dei partiti di opposizione, non è credibile, anche perché questi partiti non sono in grado di rimettere in
discussione la catena di ferro del quadro neoliberale che essi stessi hanno contribuito a costruire negli ultimi 30 anni, e che implica una sottomissione senza eccezioni al dogma monetarista. L'esempio della Grecia è da questo punto di vista sufficientemente eloquente. Si tratta di uscire dall'imperativo della crescita, cioè di rifiutare la ricerca ossessiva della crescita. Quest'ultima non è ovviamente (e non dovrebbe essere) un fine in sé; essa non è più un modo per eliminare la disoccupazione. Si deve tentare di costruire una società dell'abbondanza frugale, o per dirla con Tim Jackson, di prosperità senza crescita.
In effetti, l'obiettivo primario della transizione dovrebbe essere la ricerca della piena occupazione per porre rimedio alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere fatto attraverso una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione graduale delle attività parassitarie come la pubblicità o nocive come il nucleare e la produzione di armi, e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Per il resto, è il ricorso alla stampa di carta moneta, e quindi ad una inflazione controllata (diciamo più o meno del 5% l'anno) che noi raccomandiamo. La soluzione keynesiana equivale alla scelta di una moneta fondente che stimola l'attività economica, senza tornare alla logica della crescita illimitata, favorendo la soluzione dei problemi causati dall'abbandono della religione della crescita.
Naturalmente, questo bel programma è più facile a dirsi che a farsi. Nel caso della Grecia richiede come minimo di uscire dell'euro e ripristinare la dracma, probabilmente non convertibile, con tutto ciò che questo comporta: controllo dei cambi e ricostituzione delle dogane. Il necessario protezionismo selettivo richiesto da questa strategia farebbe inorridire gli esperti di Bruxelles e del Wto. Ci si dovrebbe dunque attendere misure di ritorsione e tentativi esterni di destabilizzare coordinati con gli atti di sabotaggio da parte degli interessi lesi all'interno. Questo programma sembra molto utopico oggi, ma quando si arriverà al fondo del marasma e della crisi reale che abbiamo di fronte, sembrerà auspicabile e realistico.
Conclusione
Nell'antica tragedia greca, la catastrofe è l'argomento della strofa finale. E noi siamo a questo punto. Un popolo vota in massa per il Partito Socialista il cui programma è stato classicamente socialdemocratico e, sotto la pressione dei mercati finanziari, si vede imposta una politica di austerità neo-liberale da quello stesso partito, in obbedienza agli ordini congiunti di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. L'euro impedisce alla Grecia di fare ciò che l'Islanda ha potuto fare: rifiutare democraticamente il diktat. È chiaro che probabilmente la maggioranza del popolo greco non accetterebbe, e in ogni caso non facilmente, le conseguenze delle cesure necessarie per una diversa politica (uscita dall'euro, ripudio almeno parziale del debito pubblico, probabile messa al bando da parte dell'Europa ed embargo dei paesi danneggiati, fughe di capitali, ecc). Ma le «lacrime e sangue», prendendo le famose parole di Churchill, ci sono già,
senza però speranza di vittoria. Il progetto della decrescita non promette di evitare il sangue e le lacrime nell'economia, ma almeno apre la porta della speranza. L'unico modo per sfuggire a questo stato di cose, ce lo auguriamo vivamente, sarebbe quello di riuscire a far uscire l'Europa dalla dittatura dei mercati e costruire l'Europa della solidarietà e della convivialità, questo cemento del legame sociale che Aristotele chiamava filia.
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Il filosofo della decrescita
Economista e filosofo, Serge Latouche è uno degli animatori de La Revue du Mauss, presidente dell'associazione «La ligne d'horizon», è professore emerito di Scienze economiche all'Università di Parigi XI e all'Institut d'études du developpement économique et social (Iedes) di Parigi. È noto per le sue teorie sulla decrescita, molto seguite da una fetta dei movimenti altermondialisti. I suoi ultimi libri sono «Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita» (Bollati Boringhieri, 2011) e «L'invenzione dell'economia» (Arianna 2011). Ha scritto diverse altre opere, tra cui «La scommessa della decrescita» (Feltrinelli, 2007).
La doppia impostura del "Rilance": rigore più rilancio
- Serge Latouche
- Categoria: Economia equo solidale
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