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La pace che viene da sud. Donne ed economie che cambiano la vita -Endrizzi Sandr

di Endrizzi Sandra

Tratto dal n. 61 di “Voci e volti della nonviolenza” del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo

[Ringraziamo Sandra Endrizzi (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per averci messo a disposizione il seguente saggio apparso nel volume a cura di Giovanna Providenti, La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha" - Libreria Editrice Fiorentina, Pisa-Firenze 2006]



Fare pace con sè Non ci sarebbe nulla di strano nel sentire due donne che discutono del proprio lavoro, se non fosse che questa conversazione avvenne in un piccolo villaggio del Bangladesh - a Bhabarpara - tra una giovane ricercatrice italiana ed un'artigiana che intreccia la iuta.
La giovane ricercatrice ero io, l'artigiana era Chalear, che a soli 16 anni cambiò radicalmente la propria vita. Quando avvenne la conversazione Chalear aveva già trent'anni di lavoro alle spalle, mentre io ero da circa due mesi al villaggio e la sentii lamentare: "ah, mi bruciano gli occhi".
Quasi istintivamente mi rivolsi a lei: "Chalear, non hai mai pensato di ritirarti? Hai una nuora ed una figlia che lavorano la iuta, potresti stancarti meno se..." ma non riuscii a finire la frase quando incrociai il suo sguardo. Lei mi guardò e disse: "no, io nel mio lavoro sono libera".
Stavo cercando di studiare il di più del lavoro femminile e la risposta di Chalear fu la chiave di volta della mia ricerca.
L'esperienza del lavoro della iuta nel villaggio di Bhabarpara sarà ripresa più avanti. C'è un'importante correlazione tra lavoro, libertà e ruolo delle donne, che merita attenzione. La suddivisione sessuale dei compiti è presente diffusamente in tutte le società sia rurali che industriali con significati e valori ben determinati. Ciò ha conseguenze sulla condizione femminile come pure sulla relazione tra i generi sessuali che vivono spesso in contrapposizione ed in situazione di conflitto, dove la donna ha una posizione di subordinazione. Ancora più marcata è la soglia tra la sfera domestica e la sfera pubblica quando si è in presenza di una società, come quella bengalese, che prevede la segregazione della donna in osservanza delle regole del purdah. Le donne che possono uscire di casa non accompagnate da un rappresentante maschile della famiglia, sono solo coloro che hanno estrema necessità di contribuire al magro bilancio famigliare attraverso lavori di fatica, spesso nei campi. La sfera domestica è l'unico luogo di presenza femminile entro cui la donna può agire e contribuire alla sussistenza della famiglia. Si tratta di un campo molto limitato che la toglie dalle relazioni sociali pubbliche, per cui non si vedrà nessuna donna al mercato sia come acquirente che come venditrice. Contravvenire a queste regole, modificando il proprio comportamento, potrebbe costare molto caro alle donne di questa società, dove non solo sarebbero rifiutate in altri ruoli ma anche pesantemente vessate. Per tale motivo, in Bangladesh le donne sono indicate come le più povere tra i poveri, non sono sufficienti le leggi contro gli abusi per difenderle. Infatti è talmente spesso il velo di omertà che si leva intorno alla famiglia in cui si consumano violenza ed abuso che raramente si hanno casi di denuncia. Pensare ad un processo di sviluppo in Bangladesh, come pure per altri paesi asiatici, significa superare anzitutto le barriere sociali che relegano le donne tra le mura di casa. Uscire di casa acquista anche il significato simbolico di uscire dalla rappresentazione che le donne hanno di sè e vedersi come potenziali portatrici di reddito. Come già detto, spesso il motivo per cui una donna esce di casa è dettato dalla necessità di far fronte all'estrema povertà in cui versa la famiglia. La donna quindi è così costretta a cercare una fonte di reddito.
Da numerosi studi emerge che la capacità di poter portare del denaro a casa ha aumentato la partecipazione delle donne alle decisioni famigliari. Non solo, al denaro infatti si accompagna anche un guadagno sociale misurabile in termini di una maggiore considerazione e peso all'interno della famiglia.
Tuttavia, la capacità economica della donna deve essere uno strumento di miglioramento e non il fine ultimo. Con ciò si introduce qualcosa di importante: non è solo al reddito che dobbiamo guardare se ci vogliamo interessare allo sviluppo. Non a caso sono attualmente messe in discussione le teorie economiche che ponevano come misuratore dello sviluppo di un paese il Pnl (Prodotto nazionale lordo) o i redditi individuali. Vi sono diversi studiosi che hanno analizzato il concetto di sviluppo proprio a partire dai parametri su cui fino ad oggi si è misurato, ovvero la capacità di reddito. Tuttavia questa visione è riduttiva ed è invece illuminante l'analisi che fa Amartya Sen (1) quando identifica nella libertà uno dei fattori determinanti per misurare lo "stato di sviluppo" di un paese, di una comunità e di una famiglia. Ciò che è interessante è che la libertà viene intesa come capacitazione (2), ovvero il mezzo e l'effettiva possibilità di perseguire ed ottenere ciò che una persona ritiene importante all'interno della scala dei propri valori. Ci sono quindi diversi tipi e gradi di libertà, tanto più importanti se pensiamo che in alcuni paesi - come quelli del Sud del mondo - milioni di individui devono ancora garantirsi la libertà sostanziale di poter sopravvivere.
Il termine capacitazione è composto dai due significanti capacità e azione, ed è qui preferito al termine anglosassone empowerment entrato nella terminologia istituzionale corrente. Nel termine capacitazione viene valorizzata l'importanza del ruolo attivo dell'individuo all'interno della società, dove è partecipe non tanto come "attore" (ovvero esecutore) quanto come "ideatore" (ovvero "centro d'azione").
È proprio questo il cambiamento di prospettiva che Chalear fece all'inizio della sua avventura, ed è questo che la portò a difendere la storia della propria azione (e non solo attività lavorativa) associandola alla libertà, dicendo che nel suo lavoro è libera. Un'apertura verso il futuro mettendo il proprio soggetto al centro dell'azione e non come attore sociale all'interno di un meccanismo economico.
Chalear ha aperto uno spazio da sè e per sè, pur dovendo rispondere alla impellente esigenza di portare a casa da mangiare. Eppure una spaccatura è stata possibile. Chalear ha individuato il suo centro d'azione, che in questo caso possiamo chiamare punto di leva, su cui ha saputo poggiare per poter spostare quella pesante pressione sociale che la aveva relegata nel ruolo di donna reclusa, sposata con una dote (due galline e una bicicletta).

Fare pace con la società Il Bangladesh è un Repubblica Costituzionale a suffragio universale il cui presidente è una donna. Nulla di strano se non si sottolinea che in questo paese le donne subiscono atti di violenza domestica e sociale che spesso rimangono impuniti. Il contrasto è quindi evidente. Sebbene non manchino le leggi che tutelano le donne e che puniscono severamente la violenza, sono ben rari i casi di denuncia. Subire soprusi per le donne del Bangladesh è un fatto quotidiano, una realtà in cui sono cresciute e che hanno imparato a sopportare convivendo con il silenzio. Nella maggior parte dei casi, le donne non sanno di avere il diritto di denunciare un uomo e di essere legalmente garantite per la propria incolumità. La comunità isola la donna che denuncia il proprio marito o che lascia la propria casa, significherebbe macchiare la propria persona e tutta la famiglia d'origine di una grande vergogna. Le ritorsioni sono feroci, spesso le donne sono colpite dall'acido solforico in pieno volto, così da essere punite. Questo succede sia che lo sgarbo venga direttamente dalla donna, oppure da un membro della propria famiglia. Colpire una donna significa colpire tutta la sua famiglia, perché una volta sfregiata, una donna non potrà essere più sposata, non potrà quindi avviarsi verso un ruolo sociale che la vedrà moglie, nuora per poi guadagnare il prestigio di suocera.
La dote, il prezzo della sposa, ancora oggi deve essere corrisposta dalla famiglia della sposa alla famiglia del futuro marito. Saranno i padri ad accordarsi per il giusto corrispettivo. I due fidanzati si vedranno solo al momento del matrimonio, quando lo sposo solleva il velo della sposa durante la cerimonia. La notizia di essere fidanzata dunque viene data dal padre alla figlia e, generalmente, non è mai presa come una bella novità. Spesso inizia un periodo di forte preoccupazione per quello che sarà il futuro.
Madri e sorelle tentano di rassicurare la giovane, ma è difficile convincerla. Dopo la pubertà, la giovane donna ha già imparato ad osservare le regole del purdha, tuttavia con il matrimonio si aggiungeranno ulteriori restrizioni e maggiori compiti da assolvere. Il primo sarà dare un figlio maschio alla famiglia.
Ecco le tappe che scandiscono il futuro di una donna del Bangladesh, sebbene sia decisamente riduttiva la descrizione qui riportata, corrisponde comunque alla diffusa realtà.
Nelle città c'è un inizio di apertura e di riconoscimento del lavoro femminile (in uffici e in pubblici esercizi), nonostante ciò la situazione nelle aree rurali rimane ancorata alle osservanze della rappresentazione consolidata del ruolo femminile.
Abbiamo qui osservato la condizione delle donne dal punto di vista dell'assenza o se si preferisce della non-presenza. Le donne assenti dalla sfera pubblica riescono a mantenere vive le relazioni sociali pur da una posizione di totale oscurità. Attraverso i legami famigliari e di vicinato, le donne riescono a raggiungersi nelle diverse case. A ciò si aggiunge che si tratta di famiglie allargate, dove un nucleo può essere composto anche da dodici membri, quindi un luogo dove convivono più generazioni e più donne. Siccome l'attenzione è usualmente spostata sulla sfera pubblica (quella più visibile) questi rapporti sono spesso "non visti" oppure sottovalutati. Si tratta di relazioni invisibili a cui non viene dato molto peso, sebbene vi sia la presenza di scambi essi non appartengono al mercato.
Quello che le donne si scambiano può essere indicato con il termine di "servizi", aiuto in caso di malattia nello svolgere alcune faccende domestiche, custodia dei bambini nel caso la madre sia occupata temporaneamente altrove, prestito di utensili per la casa e così via. Sono solo alcuni esempi delle innumerevoli attività che le donne svolgono. Non essendo monetizzati, sfuggono alla visione di un mercato centrato sul calcolo del reddito. Certamente non producono ricchezza se il nostro misuratore è il reddito pro-capite, ci sono però anche altri fattori che possono contribuire al cambiamento delle condizioni di una famiglia. Se spostiamo quindi l'attenzione dal computo del reddito ad una più ampia visione di capacitazione, riusciamo ad includere anche quei "servizi" che le donne svolgono abitualmente. Rimane però una differenza sostanziale a cui porre attenzione, la mancata produzione di reddito è il motivo centrale che rende il lavoro invisibile e il suo valore non viene calcolato nell'apporto alla famiglia. Questo è determinante nella gestione delle risorse e nella partecipazione alle decisioni. Quanto detto vale anche per quelle donne che in Bangladesh (come in altri paesi asiatici) sono costrette ad uscire di casa e lavorare a servizio presso terzi oppure nei campi. Il loro apporto al lavoro viene considerato di rendimento inferiore rispetto quello di un uomo, pertanto non verrà corrisposto un salario in denaro bensì in beni. Per esempio, se una donna si reca nei campi a lavorare, anzitutto dovrà mettersi in fila davanti alla proprietà del datore di lavoro che, quando arriva, sceglie i lavoratori della giornata. Se una donna viene scelta per raccogliere il riso, allora le verrà corrisposta una certa quantità di riso da portare a casa. Nel caso di un campo di iuta le verrà corrisposto un certo quantitativo di iuta e così via. Mentre, nel caso del lavoro industriale, dove pure sono presenti in gran quantità le donne, il salario è decisamente inferiore a quello di un uomo. La motivazione formale è sempre la stessa: le donne rendono meno, sostanzialmente - invece - si sa bene che le donne lavorano molto. Assumendole dunque, si guadagna due volte, il salario è più basso e il lavoro svolto non ha nulla di differente da quello maschile.
Parlare di sviluppo prendendo come parametro il reddito pro-capite, quindi, risulta riduttivo e fuorviante. Si otterrebbe infatti, che se un uomo potesse guadagnare di più, il reddito pro-capite familiare salirebbe e se ne desumerebbe erroneamente che quei soggetti hanno una buona qualità della vita.
Andiamo a vedere cosa succede nella distribuzione delle risorse all'interno della famiglia. Avere scarse possibilità di accesso al cibo non è solo la conseguenza di una scarsa capacità d'acquisto. Vi sono paesi dell'Asia, del Nord Africa e la Cina dove le donne sono in stato di denutrizione, molto di più rispetto ai membri maschili della loro famiglia. Questo perché all'interno del nucleo famigliare hanno la precedenza alimentare gli uomini ed i bambini, talvolta le bambine sono addirittura lasciate morire. Questo - come pure il già visto apporto del lavoro femminile - non è spiegabile soltanto con il denaro a disposizione ma con la distribuzione delle risorse all'interno della famiglia. Lo stesso risulta se guardiamo alla scolarizzazione molto bassa per le ragazze. Quindi la scarsità di risorse economiche in alcuni casi non ci dice molto sul fenomeno della disuguaglianza dei sessi; se non si apre l'analisi ai fattori socioculturali si rischierebbe di ottenere un quadro distorto della realtà.
In altre parole, il miglioramento delle condizioni economiche di una famiglia non assicura un pari accrescimento del benessere dei membri. Non vi è una relazione diretta di causa ed effetto tra fattori economici e fattori sociali. Non è sufficiente mettere del denaro nelle mani delle donne affinché la condizione femminile possa cambiare tout court.

Fare pace con il mercato Nei primi anni '80 in Bangladesh è nato uno strumento ideato per abbattere i limiti imposti dalle istituzioni, che si è poi dimostrato avere ottimi risultati sia economici che sociali, se concesso alle donne. Nella maggior parte dei casi, il microcredito ha permesso a molte donne di fare pace con la società. L'accenno riguarda il microcredito che venne pensato da Muhammad Yunus, il quale vide nelle donne povere un tesoro di capacità senza però la possibilità di metterle a frutto. Infatti, la mancanza di un piccolo capitale da investire per avviare attività di piccolo commercio molte volte era - e rimane - la principale causa dell'esclusione dei poveri dal mercato. Senza garanzie materiali nessuna banca presta del denaro, a maggior ragione ad una donna (che in molti paesi non ha diritto di proprietà e di eredità).
Il professore Yunus ha strutturato un percorso creditizio in modo che i singoli fossero responsabili delle quote prestate all'interno di un gruppo di controllo, dove se uno dei membri non può restituire la quota prestata saranno gli altri a dover rifondere la cifra. Scatta così il meccanismo di supervisione all'interno del gruppo (3).
Le donne si sono dimostrate particolarmente abili nella gestione del capitale prestato che - come dice la parola stessa microcredito - è sempre di entità ridotta. Dopo trent'anni di esperienza nella gestione di questo strumento creditizio da parte di numerose istituzioni governative e non governative, emerge dagli studi antropologici e sociologici che le donne, con un credito, sanno introdursi negli interstizi del mercato. Piccoli spazi sono stati aperti e "riadattati" dalle donne, sia che si tratti di piccole attività volte al mercato locale sia che si tratti di attività volte alla commercializzazione internazionale attraverso il Commercio Equo e Solidale.
Ritorniamo al villaggio di Bhabarpara, dove più di trent'anni fa Chalear iniziò l'impresa fondando una cooperativa di donne ed imparando ad intrecciare la iuta per farne tappeti, shike (4), amache e tanti altri piccoli oggetti. Chalear a metà degli anni '70 era una giovane donna musulmana, scappata dalla casa del secondo marito. Una vergogna per la propria famiglia, che la rifiutò. Soltanto il nonno la prese con sè, dicendole di trovarsi un lavoro. A quel punto le possibilità erano due: andare a lavorare a giornata in un campo (riso o iuta), andare a servizio presso una casa di benestanti. In entrambi i casi il suo salario sarebbe stato un pasto caldo e nulla di più. Si rivolse dunque a un padre saveriano (5), missionario presso il villaggio, per chiedere se fosse a conoscenza di qualcuno in città in grado di accoglierla come donna a servizio. Si ritrovò invece con un'offerta ben diversa: ricevere un piccolo prestito, frequentare un corso e imparare a lavorare la iuta. Si unì così ad un gruppetto di quattro donne. Quando Chalear racconta la sua storia dice: "non avevo niente da perdere, così ho imparato a lavorare la iuta". Queste parole suonano tanto più importanti se si considera che a metà anni Settanta il Bangladesh era appena diventato uno stato indipendente (dal Pakistan), dopo una cruenta guerra. A quel tempo il Bangladesh era ricco di una sola materia, di cui era il più grande produttore al mondo: la iuta.
Utilizzata per imballaggi nei bastimenti, venne sostituita dalle fibre sintetiche e dal polistirolo (all'acquisto materiali molto più economici, in termini ambientali hanno un costo elevatissimo). Chalear a quel tempo era sì una povera ragazza analfabeta, ma non le servivano grandi calcoli per rendersi conto che la iuta non la voleva più nessuno e che i campi erano praticamente abbandonati. Una scommessa un pò pericolosa quindi quella della cooperativa. Ma, forse, quando non si ha niente da perdere la sorte la si sfida con più coraggio.
Il salto nel buio non fu soltanto quello di prendere a prestito del denaro (attraverso un microcredito), lo scoglio maggiore era quello di essere una donna che avvia in proprio un'attività economica. Quindi una donna che esce dallo schema sociale prefigurato.
Dopo qualche anno in Europa nasceva quello che poi si sarebbe affermato come il Commercio Equo e Solidale (in inglese Fair Trade), un canale commerciale entro il quale le donne della cooperativa di Bhabarpara hanno venduto - e tuttora lo fanno - i loro prodotti. Non solo il microcredito ricevuto inizialmente è stato restituito, ma oggi hanno anche guadagnato la stima della banca locale che è ben lieta di riceverle presso la propria sede dove le donne possiedono il loro personale conto corrente. All'interno della cooperativa le donne hanno saputo amministrare il proprio sapere ed il proprio guadagno. È attraverso una invisibile ma resistente rete relazionale che hanno saputo procedere durante i trascorsi trent'anni di attività. Non senza difficoltà certamente, molte hanno cambiato la propria vita. Qualcuna dice di non essere più picchiata, qualcuna esalta la possibilità di poter uscire di casa, tutte sono fiere di aver cambiato la propria esistenza e di comprendere il valore del proprio lavoro e delle proprie opinioni (6).
Dai commenti delle donne risulta quindi che il risultato maggiore ottenuto con il lavoro è misurabile in termini di riconoscimento sociale. Un traguardo di cui sono orgogliose perché è stato raggiunto con la costanza di tutte le donne nell'aiutarsi reciprocamente e nel saper costruire un lavoro che si facesse forza delle relazioni tra le socie. Il mercato è diventato uno spazio libero - e non libero mercato - entro cui agire le proprie capacità, i propri diritti e da cui trarre beneficio per la propria esistenza. Così da trent'anni le donne della cooperativa di Bhabarpara esportano, con successo, in tutto il mondo i loro prodotti di iuta.

Fare pace con la globalizzazione Come può una piccola cooperativa di sessanta donne essere inserita nel mercato globale? Ebbene, se si considerano alcune differenziazioni allora è possibile. Anzitutto, negare l'esistenza o anche l'importanza del mercato sarebbe come negare l'esistenza o l'importanza del bisogno di interazione tra esseri umani. Sono le distorsioni che nel mercato hanno trovato un buon nascondiglio che sono da scoperchiare e additare. Si tratta di meccanismi che hanno le loro radici nel colonialismo piuttosto che nello scambio di merci. Come ricorda Amartya Sen "per migliaia di anni, viaggi o migrazioni, scambi di merci di conoscenze acquisite hanno rappresentato una forma di globalizzazione, che ha contribuito al progresso dell'umanità. E fermarla avrebbe arrecato un danno irreparabile" (7). La globalizzazione - in sè - non è il male che logora il mondo e che impoverisce sempre di più i poveri e le povere. Il problema principale non sta nel mercato, bensì nella diseguaglianza tra i popoli che ha conseguenze molto gravi sia umane che ambientali. L'impiego massivo di manodopera a basso costo, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali senza la preoccupazione per la loro rigenerazione, non sono la diretta conseguenza dello scambio di merci, bensì il risultato di un mercato che opera in nome di una certa libertà.
È a questo punto che le strade si dividono, da un lato - nel libero mercato - la libertà viene associata allo scambio delle merci che possono circolare per il mondo. Dall'altro lato c'è una libertà che mette al centro il soggetto che agisce, con dignità, e che dentro il mercato è libero di muoversi. Ecco, la prospettiva è decisamente invertita. Sebbene i termini che si utilizzano, talvolta, siano così simili. Le donne della cooperativa di Bhabarpara hanno agito una libertà che le ha fatte progredire, per una strada loro, impostata da loro, forse lontana dal concetto di progresso che impregna l'immaginario collettivo occidentale, fatto di beni ed oggetti tecnologici. È ben riconoscibile però un percorso di libertà che ha portato le donne ad essere inserite in un'economia globale, attraverso l'esportazione di beni. Essere parti attive nella globalizzazione è il cambiamento di prospettiva, quello espresso da Chalear con le sue parole "io nel mio lavoro sono libera".
Nel Commercio Equo e Solidale la cooperativa di Bhabarpara, così come tante altre organizzazioni iscritte all'Internation Fair Trade Association (Ifat) (8) hanno trovato la via per poter agire nel mercato. Il messaggio centrale del movimento del Commercio Equo e Solidale è ben espresso nelle parole del fondatore Frans van der Hof quando scrive "quanto a noi, vogliamo una libertà in cui l'elemento centrale sia l'essere umano piuttosto che una libertà dettata dalle leggi del mercato... la libertà è un prerequisito indispensabile a qualsiasi tentativo di miglioramento sociale ed economico della società. Noi tuttavia rifiutiamo di accettare la fatalità di un modello che ha la pretesa di essere globale ed esclude più della metà della popolazione dai benefici dello sviluppo e che ignora l'ambiente" (9).
Ci sono centinaia di migliaia di storie che si potrebbero raccontare e tutte fanno parte di quel movimento che crede nella bontà di un mercato in grado di portare e conservare il di più di quel lavoro manuale ed artigianale che viene svolto in tutte le parti del mondo. Ciò lo rende globale, nell'abbraccio delle tre "E": economia, ecologia ed equità (10).
Nella convinzione che la pace sia un bene comune, che non possiamo acquistare e neanche vendere, la possiamo custodire dentro di noi e renderci donne e uomini liberi di agirla anche attraverso piccoli gesti quotidiani, perché la scelta è una responsabilità personale.

Note 1. A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000.
2. Traduzione del termine anglosassone capability.
3. M. Yunus, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1999.
4. La shika è originariamente un cestello in fibra morbida entro cui si andavano a posizionare le giare d'acqua o altri contenitori. Ponendo due shike alle estremità di un bastone, è possibile trasportare a spalla una buona quantità di materiale. Oggi sono conosciute nelle nostre case come portavasi da appendere al soffitto.
5. Padre Giovanni Abbiati ha sostenuto il lavoro della cooperativa di Bhabarpara incoraggiando ad avviare l'attività e trovando i fondi per iniziarla.
6. Per un approfondimento sulla percezione del cambiamento tra le socie della cooperativa di Bhabarpara si veda Sandra Endrizzi, Pesci piccoli.
Donne e cooperazione in Bangladesh, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p.
122.
7. A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2003, p. 15.
8. Per una lista completa delle organizzazioni socie e per maggiori approfondimenti sul tema del Fair Trade si veda il sito www.ifat.org 9. F. van der Hof, Faremo migliore il mondo. Idea e storia del commercio equo e solidale, Paravia - Bruno Mondadori, Torino-Milano 2005, p. 99.
10. Ibid., p. 96.

2. ET COETERA Sandra Endrizzi (Trento, 1974), laureata in scienze della formnazione con una tesi di antropologia culturale, ricercatrice sul campo, impegnata nella rete del commercio equo e solidale, lavora presso il consorzio Ctm-Altromercato a Bolzano (www.altromercato.it) come responsabile dei progetti di cooperazione in Asia. Opere di Sandra Endrizzi, Pesci piccoli.
Donne e cooperazione in Bangladesh, Bollati Boringhieri, Torino 2002; (con Paola Bizzarri), Tutto il riso del mondo, Sonda, Torino-Milano 2004.

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