Matteo Salvini cresce di voti, ma a quanto pare non ancora di saggezza. E pensa di farsi tranquillamente i ministeri degli altri, ma proprio tutti: i ministeri tipici della politica, che sono sinonimo di "potere" e dovrebbero esserlo di "dovere", tanto quanti i ministeri propri della comunità cristiana, che sono sinonimo di "servizio".
Qualche giorno fa, infatti, con un precipitoso cinguettio su Twitter, il ministro dell'Interno aveva fatto sapere di voler convocare le parti sociali al Viminale come se quel colle e quel palazzo fossero diventati anche la sede del dicastero delle Attività produttive e del Lavoro o addirittura fossero di nuovo (come in anni ormai lontani) assurti al ruolo di principale sede di governo che è oggi di Palazzo Chigi.
Oggi, invece, con un irriflessivo messaggio via Facebook, ha deciso di farsi anche la carità degli altri, spiegando all'arcivescovo di Torino che cosa la Chiesa può permettersi nella sua azione per i poveri e che cosa non deve neppure azzardarsi a pensare. Perché? Perché monsignor Cesare Nosiglia aveva osato tendere una mano, anzi entrambe, agli esseri umani bloccati sulla imbarcazione umanitaria "Sea Watch" al limite delle acque italiane e allo stesso ministro dell'Interno che in quella condizione li mantiene. Da Torino, tra i consensi di una città in festa per il patrono san Giovanni Battista, il vescovo Cesare aveva detto: noi ci siamo, e ci facciamo carico del problema. Un aiuto per togliere tutti dalla terribile impasse dell'ennesimo braccio di ferro sulla pelle di naufraghi in fuga dalla Libia. Un soccorso di cui - grazie ad altri uomini di Dio, cattolici ed evangelici - Salvini del resto aveva già goduto, impersonando a lungo la parte del duro persino nei confronti di navi militari italiane, ma evitando infine di avere sulla coscienza qualche tragedia. Stavolta, invece, il ministro e leader della Lega ha ingiunto seccamente al «caro vescovo» di pensare agli «italiani in difficoltà». Come se già il vescovo non lo facesse.
Per arrivare a dire una cosa del genere ci vogliono almeno due impazzimenti o, se volete, due deliberate rinunce a un po' di buon senso.
Prima di tutto ci vuole una notevole dose di imprudenza e una doppia impudenza. L'imprudenza è quella di chi si ritiene un «unto del signore» e pensa addirittura di incarnare la legge. La prima impudenza è quella di chi mostra (o finge) di sapere poco o nulla della fede e della carità cristiana e però ne parla e ne straparla a sproposito. La seconda impudenza è di chi "sfida" senza avere nemmeno lontanamente un'idea di che cosa sia e come viva la Chiesa di Torino, e dello speciale carisma per il servizio ai piccoli e gli ultimi che ne ha fatto e ne fa ancora oggi una gioiosa fabbrica di "santi sociali". Una Chiesa speciale e uguale nel cuore di una Chiesa italiana che ogni giorno e ogni notte sta accanto a quanti - persino al tempo del Reddito di cittadinanza e della sovrabbondante retorica sul «prima gli italiani» - sono e restano ai margini di tutto. Ma ci vuole anche un bel po' di arroganza. Quella che porta il ministro a irridere («dorma bene!») anche il parroco di Lampedusa che trascorre notti all'aperto aspettando l'approdo di chi non ha tetto ed è sopra al mare. Quella che travolge quasi sempre i politici colpiti da improvvise e cospicue fortune elettorali e che ha già prodotto un sacco di guai al Paese, mettendo spesso in questione ciò che lo ha reso grande, non per ultima la capacità molto italiana di vincere, e far lievitare, di solidarietà l'innato particolarismo dei suoi figli. Il problema è che l'arroganza, come certe fortune, prima o poi passa, ma i danni fatti restano e pesano sulla vita della gente.
Magari è stata solo una voce dal sen fuggita e precipitosamente, come ormai succede quasi sempre, fatta rimbalzare sui social. Un politico di successo come Matteo Salvini, farebbe meglio ad apprezzare chi non tende la gamba per fare sgambetti, ma tende cristianamente la mano per aiutare, senza altro interesse che il bene necessario e possibile in un momento di crisi, in cui ci sono in ballo non cose ma persone. Non si morde mai la mano che soccorre, men che meno se soccorre altri.
Avvenire, 25 giugno 2019
Segnalato da Buratti Maria Stella