Intanto vediamo cosa non deve fare. Stiamo attenti a non confondere il movimento con l’agitarsi a vuoto, e il silenzio con il lavoro quotidiano. L’azione della nonviolenza è soprattutto preventiva, anche se non fa chiasso. Sono cose risapute, già dette da tempo, ma che poi vengono periodicamente disattese per la smania di dover dare risposte immediate a chi rilancia sempre la stessa stantia domanda: ma dove sono i pacifisti?
È del tutto evidente che un certo pacifismo che si limitasse a sventolare bandiere arcobaleno, ad esporre cartelli, o – peggio – a raccogliere firme o convocare marce periodiche, rituali, sempre uguali a se stesse, sarebbe del tutto inadeguato. Un pacifismo inane, già superato storicamente ad inizio novecento da Tolstoj e da Gandhi che voltarono pagina passando dal pacifismo imbelle (quello che si sbriciolò davanti alla prima guerra mondiale) alla nonviolenza attiva (la vera novità del Novecento).
Le risposte, e la strategia da seguire, ce le siamo date da parecchi lustri: già nel convegno “Crescere dal pacifismo alla nonviolenza” del 1984, e poi con Alex Langer (innovatore della prassi e della teoria della nonviolenza, mai adagiato su sentieri già calpestati), che nel 1989 cercò un nuovo percorso. “Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari, non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Sono convinto che oggi il settore R&S, ricerca e sviluppo della nonviolenza, debba fare grandi passi in avanti e non debba fermarsi alle ormai tradizionali risorse”. Tensione ideale e realismo politico.
Aldo Capitini, fondatore del nostro Movimento, era un “oppositore integrale alla guerra”, ma non si è mai posto l’obiettivo velleitario di fermare una guerra in corso (nemmeno quelle scellerate volute dal fascismo), ben sapendo che le radici delle guerre sono forti e profonde e possono essere debellate solo con un ampio movimento di resistenza e di non collaborazione nonviolenta, di elaborazione ed educazione alla cultura della pace. L’errore in cui non deve rischiare di cadere il movimento per la pace, è quello di limitarsi a mettere a verbale il proprio no alla guerra, dichiarando di fatto la propria impotenza. Il compito di un movimento pacifista, invece, è quello di mettere in atto campagne di reale opposizione alla guerra e alla sua preparazione, di capacità di analisi propria e di proposta politica e nel contempo avviare le alternative ai conflitti armati. Gli ultimi venti anni, almeno, rappresentano gli anni della crescita, maturazione e organizzazione del più vasto movimento per la pace. Tuttavia resta, purtroppo alimentato dalla cosiddetta grande stampa, lo stereotipo del pacifista come di colui che quando scoppia un conflitto armato corre in piazza con la bandiera arcobaleno a protestare ed invocare la pace. Un movimento pacifista e nonviolento maturo non si fa dettare l'agenda politica dai titoli di giornale, dalle analisi che alimentano lo scontro e l’allarme catastrofista, dai muscoli mostrati come minaccia dagli apparati militari. Un movimento maturo segue invece la propria strategia, conduce le proprie campagne, costruisce e allarga reti di relazioni, agisce dentro i conflitti; lo si trova a operare sul campo, dentro i movimenti che vogliono cambiare la realtà, con forte radicamento territoriale. La mobilitazione contro la guerra va sempre fatta, anche nei momenti di crisi, ma è coerente e vincente solo se attuata con i mezzi della nonviolenza: prassi, azione, sperimentazione. Testimonianza e proposta, sempre insieme, mai disgiunti.
Questo è il momento dei nervi saldi, della valorizzazione di ogni segnale di de-escalation, della neutralità attiva, del negoziato: “Contro la guerra di domani, disarmiamoci oggi”, questo lo slogan che teniamo come faro del nostro lavoro di ieri, di oggi, di domani.
Mao Valpiana
presidente Movimento Nonviolento
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