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Con la guerra, sempre tutto è perduto

Con Hiroshima l’idea di guerra cambia totalmente: nessuna guerra potrà mai più definirsi "giusta", quando in un attimo, insieme a tanti innocenti,  il mondo intero può essere distrutto.

Su tale argomento la riflessione di Giorgio La Pira  diviene molto ampia, e con lo stile che lo caratterizza, rispondendo a chi lo accusava di essere un "sognatore" dirà che "Utopia" è la guerra e non la pace, perchè con la guerra, sempre tutto è perduto.

Riportiamo qui di seguito due brani di Giorgio La Pira, il primo tratto da un suo discorso del 1976, a un anno dalla sua scomparsa; il secondo è un testo scritto a Leningrado nel luglio del 1970, ed appartiene alla sua riflessione sul ruolo nuovo delle città.

"La guerra? Per fare cosa? Per "affondare" la terra nell’oceano spaziale? Ma se ciò è assurdo (e lo è), allora l’idea stessa di guerra nucleare, globale, è destinata a scomparire dalla mente e dal vocabolario degli uomini. (...). In questa (...) impossibilità definitiva della guerra e della inevitabilità definitiva della pace, vanno, dunque, visti ormai i rapporti tra Est e Ovest ed i conseguenti problemi del disarmo connessi alla Conferenza di Helsinki.

E l’Italia? Come andrà politicamente incontro (per accelerarne la conclusione) a questa "pace inevitabile" delle nazioni? (...) L’immagine che rende bene in un certo senso la nostra risposta è quella del "ponte": l’Italia deve costruire un "ponte sul mondo"; un ponte che i popoli (...) attraversino per giungere alla "civiltà della pace" (...) La politica italiana va vista nella prospettiva di questa costruzione del ponte di pace sul mondo e della edificazione della unità politica del mondo (...). Basti pensare alla "esplosione" demografica dei prossimi 30 anni (saremo sette miliardi nel 2000) ed a quella - davvero impensabile - dei prossimi 100 anni. (...) Una "programmazione" nazionale, continentale, mondiale; a questa esigenza del piano non ci si sottrae (...) per aprire le porte che danno accesso politico alle classi lavoratrici ed a tutti i popoli nuovi della terra; per "programmare" e realizzare per tutti i popoli una elevazione sociale ed economica che sia degna della dignità davvero infinita della persona umana". (Firenze, 1976)

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Le città sono consapevoli di essere il patrimonio del mondo, perché in esse si incorporano la storia e la civiltà dei popoli, i "regni" passano, le città restano; un patrimonio che le generazioni passate hanno costruito e trasmesso a quelle presenti - di secolo in secolo, di generazione in generazione - affinché fosse accresciuto e ritrasmesso alle generazioni future. Gli stati non hanno il diritto, con la guerra nucleare, di annientare questo patrimonio che costituisce la continuità del genere umano e che appartiene al futuro. No quindi alla guerra nucleare, No alla politica dello "equilibrio del terrore", NO perciò alle guerre locali che i popoli dell’ opulenza (per usare una espressione della Populorum Progressio) conducono contro i popoli della fame.

SI’ alla coesistenza pacifica SI’ al disarmo generale e completo e SI’ alla conversione delle spese di guerra ( almeno 200 miliardi di dollari ogni anno) in spese di pace per lo sviluppo dei popoli ("lo sviluppo è il nuovo nome della pace"). La pace appare tanto più inevitabile quando si pensa al moto sempre più vasto, irresistibile ed urgente con quale i popoli della fame interpellano, in modo ogni giorno più severe, i popoli dell’opulenza. La soluzione di questo problema è una sola: fare diventare spese di pace per la costruzione di città nuove ( si pensi ai 7 miliardi di uomini nel 2000), spese per i piani regolatori nuovi delle città antiche, spese per la costruzione di case, scuole, fabbriche, ospedali, chiese, impianti sportivi (spese di civiltà cioè) tutte le spese della distruzione, "trasformare in aratri le spade".

Eccoci infine alla terza delle direttrici di marcia che ha guidato la nostra azione di questi tre anni: "unire le città per unire le nazioni", quindi compiere i "gemellaggio" come strumenti di edificazione delle unità di popoli: creare un sistema di ponti - scientifici, tecnici, economici, commerciali, urbanistici, politici, sociali, culturali, spirituali - che al limite unisce le une alle altre, in modo organico, continente per continente, le città grandi e piccole di tutta la terra.

Questa idea semplice potrebbe davvero diventare un tessuto unitivo destinato a fasciare di pace e di progresso le città, le nazioni ed i popoli del mondo intero.

Le città unite: ecco un altro volto istituzionale, integratore - ed in certo modo essenziale delle Nazioni Unite. ( Leningrado, 1970)