La guerra rinforza la mascolinità violenta. L'asserzione degli uomini di essere i protettori delle donne è la giustificazione per il controllo estremo delle donne stesse. Ancora, regolarmente, si afferma che l'occupazione dell'Afghanistan abbia "liberato" non solo il paese ma le donne in particolare. In realtà la guerra fa regredire la condizione delle donne: sia nel paese in cui è combattuta, sia in ogni paese che ne invada un altro. In Afghanistan, l'istruzione delle bambine ebbe inizio nel 1941 e diventò obbligatoria nel 1978, un anno prima dell'invasione sovietica. I diritti umani delle donne stavano emergendo assieme al crescente sviluppo economico; a partire dal 1959 le donne ottennero il diritto di voto e nessuno richiedeva loro di essere velate. Le donne studiavano ed insegnavano nelle università afgane.
Poi l'Unione Sovietica occupò il paese per dieci anni, l'occupazione fu seguita dalla guerra civile, ed ora la guerra statunitense in Afghanistan è entrata nel suo decimo anno: la situazione oggi è che le ragazze sorprese ad andare a scuola possono avere dell'acido lanciato in faccia, che sulle insegnanti delle ragazze pendono condanne a morte (e queste donne coraggiosamente continuano ad insegnare in scuole segrete) e che l'onnipresente burqa nasconde le donne alla vista.
Il presidente Karzai, lo scorso anno, ha proposto una legge per accontentare i capi tribali che avrebbe a tutti gli effetti legalizzato lo stupro all'interno del matrimonio. Emendata prima della sua adozione, oggi la legge permette ad un marito di negare il cibo alla moglie che gli neghi il sesso.
I media americani omettono, in modo conveniente e consistente, di contestualizzare e storicizzare la condizione femminile nel mondo islamico ed arabo. Negli Usa e nel resto del mondo, uomini e donne, in largo numero, sono giunti a credere che la guerra in Afghanistan abbia solo potuto migliorare la triste condizione delle donne, e niente è più lontano dalla verità. Il fatto è che le donne stanno soffrendo di più perché il nostro allora presidente decise che era nell'interesse nazionale combattere contro un paese che non ci aveva attaccati nè aveva in progetto di farlo. E quando negoziava con Karzai su altre istanze, ha sempre ignorato le leggi punitive per le donne.
Le donne americane non guadagnano nulla dalla mascolinità violenta che risorge rinforzata dalle guerre contro l'Iraq e contro l'Afghanistan: delle donne che sono nell'esercito, una su tre è vittima di violenza sessuale da parte dei soldati americani suoi commilitoni. In questo senso è più pericoloso per una donna stare nell'esercito che in zona di guerra. Il tasso di violenza domestica subito dalle mogli di militari è più alto della media. E la cultura della guerra dà respiro politico alla destra estrema che vorrebbe privare noi donne di molti diritti umani, compreso quello di avere il controllo sui nostri corpi.
Queste sono solo le più evidenti delle violazioni, subite dalle donne, che si intensificano in tempo di guerra. Nel mentre i diritti delle donne vengono concessi o sottratti a seconda del trovarsi in pace o in guerra di un paese, un problema più grave governa la condizione delle donne durante la guerra: è la spendibilità degli uomini. Nel mio nuovo libro, "Unmaking War, Remaking Men" identifico l'addestramento ad un tipo di mascolinità come la base per la socializzazione dei ragazzi nel loro diventare uomini, e ciò è trasversale a culture e stati: per diventare uomini devono essere riconosciuti come "protettori" delle donne, dei bambini, della loro tribù o del loro paese. L'apprendimento è rinforzato dai messaggi mandati dai media, dal gruppo di pari e dalla società nel suo insieme. La violenza e l'aggressione sono gli elementi principali di questo tipo di mascolinità e sono essenziali al ruolo di "protettori". L'esercito costruisce l'attitudine al combattimento dei suoi membri su tale base. E sempre da tale base nasce l'aspettativa del "sacrificio del soldato".
Rendere gli uomini spendibili per la guerra dicendo loro che sono protettori li incoraggia, io credo, a sentirsi superiori alle donne, giacché sono i difensori di creature più deboli, inferiori. Di certo questo fenomeno non spiega tutte le diseguaglianze che toccano alle donne, ma fa un bel tratto di strada nell'analizzarle. Dalle donne di tutte le culture e le classi sociali ci si attende che accettino gli uomini come "protettori": mentre una su quattro subisce violenza dagli stessi uomini che dovrebbero difenderla da altri uomini.
Nel libro suggerisco, con maggiori dettagli di quanto possa fare in un articolo, che la spendibilità degli uomini è una condanna a morte inerente nell'aspettativa di genere che debbano combattere guerre. Viola in modo così intenso la loro stessa umanità, che molti di loro rivolgono la loro rabbia, alimentata dal senso di superiorità, contro le donne e i bambini in casa propria. E grazie all'incoraggiamento fornito dall'esercito, in Iraq e Afghanistan civili sono uccisi su base giornaliera.
Neppure la pace mette fine alla violenza contro le donne. La violenza contro le donne in casa e nelle strade resta il terreno di crescita per le prossime guerre, è il palcoscenico su cui il "macho" recita e gli uomini in genere si preparano ai combattimenti futuri.
Un impegno efficace per la pace richiede l'alleanza tra il femminismo ed i movimenti pacifisti o contro la guerra. Specialmente il lavoro femminista sulla violenza contro le donne deve informare ed aiutare a costruire le pianificazioni e le azioni dei movimenti contro la guerra. Questo permetterebbe agli uomini di assumersi la responsabilità di rifare la mascolinità ed alle donne di disfare la loro complicità nel rendere gli uomini spendibili.
Fonte: Centro di Ricerca per la pace di Viterbo
Traduzione: Maria G. Di Rienzo