Le immagini che abbiamo visto, in tutti i media, dei corpi dei poliziotti turchi, costretti a stare seduti in terra, ammucchiati e denudati, rimandano a quelle dei racconti delle ragazze e ragazzi protagonisti, quindici anni fa, della “macelleria messicana” (così venne definita allora) del G8 di Genova. Foto sovrapponibili per un comune denominatore: l’umiliazione della dignità umana e la soppressione dei diritti civili, politici e sociali.
Due fermoimmagine in cui l’oggi appare ieri e ieri appare oggi. In un tempo che scorre sempre senza memoria di ciò che è stato. In una storia, la nostra, che, come sempre, inutilmente si rincorre. E così oggi si sovrappone a ieri. E la sospensione della discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura va a cozzare, ancora una volta, contro l’irruzione notturna alla Diaz, le torture nella caserma di Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani a Piazza Alimonda, rendendo questo anniversario una pagina amara di una sempre più debole democrazia, uno dei tanti misfatti all’italiana.
E se quel che resta dei fatti di Genova, oltre alla sentenza di condanna da parte della Corte di Strasburgo, è il mancato senso di responsabilità delle nostre istituzioni di dare al Paese un reato specifico, rendendo così l’Italia l’unico Paese europeo privo di una legge in tal senso, dobbiamo sottolineare come il più grave lascito di quei giorni sia stato (e questo era di certo uno degli obiettivi di allora) la morte di un movimento.
Un movimento che denunciava ciò che poi è accaduto: l’invasione della finanza nella politica; l’imposizione di scelte scellerate da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi) all’Africa ieri, all’Europa oggi; l’inquietante abdicazione alla garanzia dei diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla tutela dell’ambiente; l’inarrestabile susseguirsi di guerre e accordi di vendita delle armi; la necessità di farsi carico (e il colorato e festante corteo dei migranti ne fu espressione) di nuove cittadinanze.
Quindici anni fa, Amnesty International scriveva che a Genova era avvenuta «la più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». Oggi, il giornalista Can Dundar, che rischia l’ergastolo per aver scritto dei rapporti tra Erdogan e l’Isis, afferma che «la Turchia è diventata la più grande prigione a cielo aperto ai confini dell’Europa…». Confini che, dati gli accordi commerciali di vendita di vite migranti per sei miliardi di euro, sono diventati inesistenti. La Turchia è la longa manus dell’Europa e dell’Italia. Di un’Europa che sommessamente minaccia di prendere le distanze dal dittatore turco e di un’Italia in cui, nonostante le Madri e i Padri costituenti avessero sancito che sarebbe stata «punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» (articolo 13, comma 4), non esiste alcuna legge che applichi la Costituzione.
Oggi, 21 luglio, è il quindicesimo anniversario dell’irruzione alla Diaz. Oggi sono ventisette anni che lo Stato italiano non è stato capace di normare il reato di tortura, nonostante nel 1989 abbia ratificato la Convenzione Onu del 1984.
Nel luglio del 2001, tra le strade di una Genova in stato di assedio e in odore di una guerra che poi si è palesata, c’era chi sfilava affermando che «un altro mondo è possibile». Noi, quel mondo, lo stiamo ancora ad aspettare.