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Il presente e la storia

Essere contro la guerra è sempre più difficile ed essere per la pace lo è ancora di più. È lontanissimo il 2003, con la moltitudine delle bandiere arcobaleno appese alle finestre contro la guerra in Iraq.
Intanto, dopo lo tusnami e il disastro atomico atomico giapponese, è esplosa in maniera improvvisa e dirompente la guerra di Libia, appendice insanguinata della breve stagione dei gelsomini che ci ha entusiasmato con le manifestazioni di Tunisi e dell'Egitto. Non dovrebbe essere così difficile comprendere che il regime di Gheddafi è un regime criminale, così come lo è il dominio delle potenze coloniali ed imperiali. "Lo stadio più alto dello sviluppo industriale mondiale nella produzione capitalistica trova espressione nello straordinario sviluppo tecnico e nella capacità distruttiva degli strumenti di guerra", ha scritto Rosa Luxemburg. Crediamo che la giustizia si costruisce con la pace, il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti.
Così come crediamo che sia urgente accogliere ed assistere tutti i profughi.
Non ci è mai appartenuta la mentalità sciagurata per cui "il nemico del mio nemico è mio amico"; non può bastare che un governo sia antimperialista perché sia difeso come amico. Il Gheddafi al servizio del potere imperiale nella gestione dei migranti ci basta a consideralo per quel che ormai è: un pezzo dell'impero e del dominio esercitato sui corpi delle donne e degli uomini. Il regime di Tripoli è una dittatura familiare abile nel fare affari con mezzo mondo, notoriamente razzista verso le popolazioni e i paesi più poveri dell'Africa, repressivo e antidemocratico. Quando cadrà, sarà una liberazione per il suo popolo e gran parte del mondo.
Certo bisogna interrogarsi, ed a fondo (la storia non si semplifica in due parole), sul perché uomini e movimenti sui quali sovente erano state riposte tante speranze e talora erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo. "Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte" (Rossana Rossanda).
Allo stato attuale delineare degli scenari su quello che succederà realmente nel prossimo futuro è praticamente impossibile, vista e considerata la complessità politica che caratterizza il Nord Africa e le tante incognite e i tanti attori protagonisti chiamati in gioco.
Intanto una cosa possiamo e dobbiamo farla subito. Far cessare la guerra in cui l'Italia è stata trascinata violando l'articolo 11 della nostra Costituzione, tanto inutilmente e ipocriticamente sbandierato negli ultimi tempi, quanto sostanzialmente stravolto e deformato.
Così come volutamente non si ricorda che l'Italia è stata una potenza coloniale in Libia, con "le italiche famiglie inviare a lavorare la fertile terra di Libia" durante il fascismo. Quest'anno ricorre proprio il centenario di quella aggressione, e almeno questo tragico trascorso avrebbe consigliato di astenersi completamente dal bombardare il territorio libico da parte della nostra aviazione militare. A molte finestre vediamo ancora le bandiere italiane, esposte per i 150 anni, e ci chiediamo se a qualcuno viene in mente che è la stessa bandiera dei caccia che vanno a bombardare.
Forse le radici storiche della nostra desolante quotidianità risiedono nella contraddittoria e complessa nascita del nostro Paese. Basta vedere il bel film di Mario Martone "Noi credevamo". Proprio le polemiche per i 150 anni dell'unità hanno fatto emergere una crisi d'identità che il paese non riesce ancora a superare. La contrapposizione tra monarchici e repubblicani è l'aspetto che dal tempo del Risorgimento contraddistingue tutta la storia d'Italia a venire e il nostro stesso presente.
Questa divisione si è ripresentata in tutte le forme che la nostra storia successiva ha conosciuto, passando ovviamente attraverso fascismo e antifascismo e arrivando ai nostri giorni. Un'idea d'Italia monarchica e autoritaria da un lato, e un'idea d'Italia repubblicana e democratica dall'altro. Un dualismo mai cessato che contribuisce a spiegare perché subiamo un personaggio come Berlusconi. Sembra davvero che vi sia nella nascita della nostra Nazione tutta la strutturale debolezza di una classe che ha accolto, favorito e acclamato sempre i peggiori.
8. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LIMITI, OMBRE, CONTRADDIZIONI[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per questo intervento] Il primo maggio, il giorno in cui il movimento operaio celebra la festa dei lavoratori, è stato beatificato Karol Wojtyla - Giovanni Paolo II, in tutta fretta ed in deroga alle norme canoniche. Non entriamo in merito, ricordiamo solo che già nel dicembre 2006 autorevoli esponenti del mondo teologico e del cattolicesimo di base avevano messo per iscritto le loro obiezioni alla canonizzazione di Wojtyla; ma dato che non ci è mai appartenuta la fascinazione, o la mitizzazione, della figura di Giovanni Paolo II, non possiamo ignorare i limiti, le ombre e le contraddizioni del suo pontificato, ad iniziare dal tentativo di screditare la Teologia della Liberazione, considerata "contaminata da elementi marxisti" e contro la quale mosse una dura repressione.
Si spiegano così (solo per citare alcuni dei casi più eclatanti) l'isolamento ecclesiale in cui fu tenuto mons. Oscar Arnulfo Romero (ucciso, il 24 marzo 1980, dagli squadroni della morte a San Salvador); il silenzio sull'assassinio, sempre da parte degli squadroni della morte nel novembre 1989, dei sei gesuiti dell'Università Centro-americana; la politica di "debolezza" verso i governi dittatoriali del Salvador, Argentina, Guatemala e Cile.
In America Latina si contrapponevano due anime della chiesa cattolica: da una parte quella "ufficiale" di obbedienza curiale, amica delle oligarchie e delle dittature (purché anticomuniste); dall'altra una chiesa popolare di base, in cerca di una giustizia anche terrena, rappresentata dal motto nicaraguense "non c'è contraddizione tra cristianesimo e rivoluzione". Il risultato fu che preti, vescovi, teologi, religiosi e religiose, catechisti, missionari, furono sovente massacrati: tranne che in Nicaragua durante i dieci anni del governo sandinista.
Proprio in Nicaragua, nel marzo 1983, il pontefice ("il grande comunicatore") avrebbe subito l'unica contestazione di piazza della sua storia, nel vano tentativo di zittire le madri degli uccisi dai "contras", la guerriglia antisandinista sostenuta illegalmente dagli Stati Uniti. È una delle immagini simbolo del pontificato di Wojtyla, unitamente al dito puntato minacciosamente contro il prete Ernesto Cardenal, ministro della cultura, inginocchiato ai suoi piedi, colpevole di aver accettato di far parte del governo rivoluzionario sandinista. Immagini che hanno fatto il giro del mondo, con la stampa che ha parteggiato per il papa, raccontando con ampiezza tutti i particolari della "offesa" arrecata al pontefice dalla folla che assisteva alla messa, mettendo anche in evidenza la "disubbidienza" di Cardenal che, in quanto sacerdote, non avrebbe dovuto mantenere una carica politica. Ciò che successe realmente è stato ampiamente raccontato dallo stesso Cardenal nell'articolo "Benvenuto nel Nicaragua libero grazie a Dio ed alla rivoluzione": "Più volte aveva detto che il Nicaragua era la sua 'seconda Polonià e questo fu un grande errore perché il Nicaragua non era la Polonia". Ma forse chi interpretò nel modo migliore la maggioranza di coloro che colmarono la piazza fu un venditore ambulante che disse: "Il Papa non ci ha detto niente, ci ha lasciato un vuoto".


Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo