Le ferite passano, le manganellate forse si dimenticano; le ossa e i muscoli si rimettono a posto. Soprattutto a 15 anni. Quello che non si dimentica è la paura e il sospetto. Di essere dalla parte sbagliata. Di essersi svegliati e di protestare nel modo e nel momento sbagliato.
Dobbiamo chiedere scusa ai nostri ragazzi. Non solo se siamo ministri dell’Interno, non solo se siamo questori o poliziotti; ma da insegnanti e da educatori e da genitori. Continuiamo a dire che sono apatici, che stanno sempre con la testa china sui social. E quando qualcuno la tira su, quella testa, si becca le manganellate. E si sente dare del maleducato, del non autorizzato. E allora di nuovo giù a guardare i video, a giocare a Fortnite. Che fa meno paura delle manganellate. Non siamo riusciti a proteggere i nostri studenti e i nostri figli da questo strano risveglio nella realtà. Li abbiamo lasciati soli.
Venerdì a Pisa andavo alla manifestazione con i miei studenti con 10 minuti di ritardo, dopo un caffè con un’amica, perché «quale manifestazione parte in orario?». Invece già dopo un quarto d’ora avevano preso le prime botte. Gente di prima e seconda liceo, alcuni – molti – alla loro prima volta. Caricati con le mani alzate o con le mani a tenere l’ombrello. Manganelli contro ombrelli, che poi, la sfiga, erano 6 mesi che non pioveva. Mi avvertono, non ci posso credere. Passo da piazza dei Cavalieri, senza sapere che proprio lì c’è sbarramento. Provo a passare, mi fermano, ma poi dico che sono una prof, mi fanno passare. E lì il delirio. Poliziotti antisommossa, ragazzi che urlano. Cose non gentilissime eh, ma questo non giustifica le manganellate. O almeno credo. Sennò gli stadi sarebbero già tutti chiusi. E non esisterebbero i raduni con la gente che per far prendere aria all’ascella destra alza il braccio.
Vedo gente per terra che sanguina. Tutto di fronte al cancello della mia scuola, con quelli che sono entrati in classe che guardano dalle finestre. Provo a parlare con i miei studenti in corteo, mi dicono «ci hanno menato». Provo con una mia collega (senza di te, amica, cosa avrei fatto) a parlare con i poliziotti. Mi indicano qualcuno. Non riferisco cosa ci diciamo, perché certamente non sarebbe edificante. Capiamo, io e la mia collega, che non c’è margine di trattativa. Siamo chiusi da una parte e dall’altra. Se non spuntano le ali da lì non si esce. Allora piango per il nervoso e per la paura. E prego le prime file di tornare indietro. Non sembrano darmi retta. Andiamo in fondo per vedere se è aperto dietro. In effetti le volanti sono andate vie. Allora chiamo al telefono un mio studente in prima fila. Incredibilmente risponde in tutto questo casino e, piangendo, gli dico di tornare, che hanno aperto. È possibilista. Non mi aspetto niente. Dopo poco, sento i cori che tornano indietro. Non so se sia servito piangere ma il corteo cambia rotta. E torna indietro e defluisce verso l’università. La strada dietro era libera dalle volanti. Almeno quello. Sennò serviva il teletrasporto.
La situazione di stallo è stata sbloccata esclusivamente dal corteo di ragazzini, che non si è arreso, anzi ha vinto. Loro più maturi degli adulti che gli stavano, armati, di fronte. Ma ora che la rabbia, l’indignazione, la paura sono passate rimane la colpa. Dobbiamo chiedere scusa. Ai pochi che hanno preso le botte. Ai tanti che guardavano dalle finestre. Ai tantissimi che hanno guardato i video; a questi ragazzi a cui diciamo sempre di svegliarsi e di lottare per le loro idee. A cui a scuola propiniamo come modelli Dante, Alfieri, Pasolini dicendo di prendere esempio dal loro coraggio e poi, una volta che, sotto la pioggia, decidono di sfilare per diritti che non sono neppure i loro, ecco che li riportiamo alla realtà con le cariche. Stai a farti gli affari tuoi «che campi cent’anni». Abbiamo davvero perso tutti sotto quella pioggia, d’acqua e di manganelli. Che poi erano 6 mesi che non pioveva.
* Insegnante del liceo artistico Russoli di Pisa