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Questa fragilità interdipendente (Vittorangeli Giulio)

Tratto dalla "Nonviolenza è in cammino", n. 1010 del 2 agosto 2005

Questa fragilità interdipendente

Giulio Vittorangeli


Delle volte occorre il semplice coraggio di riconoscere la grande limitatezza del nostro agire. Quante volte abbiamo scritto che la prima cosa, essenziale, è quella di essere sempre e comunque a fianco delle vittime, e poi non ne ricordiamo neanche i nomi, perché tutto allo stesso tempo è così crudele e veloce che non lascia neanche il tempo alla memoria di sedimentarsi.
Orrore segue ad orrore, si fatica davvero anche semplicemente a tenerne il conto: quanto tempo è davvero passato da Hiroshima e Nagasaki (luogo di tutti gli orrori del mondo, che in qualche maniera sembrava aver segnato la coscienza dell'umanità con il rifiuto totale della guerra), ai drammi attuali, dove la guerra è considerata il male minore? I nostri leader occidentali hanno pensato che possiamo tranquillamente ammazzare delle persone vere, in terre lontane geograficamente, senza che lo stesso capiti a noi, nelle nostre capitali, e soprattutto senza sofferenza fisica o morale da parte nostra; confidando nel cinismo non avremmo mai conosciuto il senso di colpa, nè la sofferenza per la guerra.
Davanti poi alla barbarie incontrollata scatenata, si è messa in moto la discussione su una guerra di crociata tra islam e occidente secolarizzato, nata sulle ceneri degli eventi dell'11 settembre, creando una visione eurocentrica di un mondo diviso in due schieramenti contrapposti, vale a dire un Occidente, percepito come pacifico e civilizzato grazie ai valori dell'illuminismo e del cristianesimo, e un Oriente percepito come bellicoso, immaturo o irresponsabile a causa del suo radicalismo religioso e dei caratteri tribali ancora presenti all'interno delle sue società. Solo che non è uno scontro fra civiltà, ma tra ignoranze; lo scontro tra mondi che si misconoscono e comunicano male.
Intanto, in particolare nel nostro paese, la deriva isterica e forcaiola, sull'onda della paura alimentata dagli attentati, spinge verso nuove chiusure xenofobe, verso leggi tanto ottuse quanto inutili, verso incivili ideologie e pratiche che vedono nello straniero, specie se povero e in cerca di opportunità di vita e di lavoro, un pericolo crescente.
In questo clima soffocante, anche una semplice cosa come il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, oggi finalmente promessa da chi dovrebbe dopo le elezioni del 2006 andare al posto dell'attuale governo di centrodestra, ci sembra chissà qualche grande conquista.
Il punto è che l'Occidente esporta un'idea e una pratica di democrazia ridotta al solo rito elettorale, e a un rito elettorale tutt'altro che trasparente, prima che a Baghdad, in casa nostra: dove fra ogni testa e ogni voto si frappone una montagna di opacità fatta di potentati economici e manipolazione massmediatica, la frequentazione delle urne non contrasta la crisi verticale della rappresentanza e della partecipazione, la libertà di voto non compensa la caduta della libertà politica.
È questa la democrazia che "esportiamo" con le armi, che ha bisogno delle armi per essere esportata, è questa la democrazia che trionfa, e del cui trionfo c'è poco da gioire. All'orizzonte non c'è il nazismo e non c'è il fascismo; ma il rischio di un destino triste della democrazia sì.
Questo sistema dell'orrore (che non è solo quello inscindibile del rapporto guerra/terrorismo, ma anche quello di un sistema economico quotidiano che ci avvolge e ci fa più o meno complici consapevoli: continuare a consumare, affamare, sfruttare e inquinare come se nulla fosse) ci stritola; nonostante le tante buone nostre intenzioni.
Per difendere questo insensato presente si uccide il futuro.
In un tempo in cui le parole sono sfigurate, usate come vuoti a perdere riempiti dei più diversi contenuti, sembra davvero che le ultime non scontate o banali, su tutto questo che stiamo vivendo, siano quelle scritte da Alex Langer nel lontano ottobre 1992 (uno ieri che è drammaticamente oggi), dopo la tragica morte dell'ecologista tedesca Petra Kelly: "Forse è troppo arduo essere individualmente dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si ac*****ulano; troppo grande il carico di amore per l'umanità e di amori che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere".
Davvero allora il tempo attuale, nella sua ferocia e disumanità, è il tempo di una fragilità senza scampo, che dovrebbe unificare l'umanità dei cosiddetti primi della terra a quella dei cosiddetti ultimi.
Forse la possibilità della politica a venire passa, nella culla europea della politica moderna drammaticamente basata sulla forza, solo per la coscienza di questa fragilità interdipendente.