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Verso la Marcia della Pace Perugia Assisi 2011: quale il ruolo della nonviolenza nella trasformazione della società?

In vista della marcia della pace Perugia - Assisi del 2011, abbiamo chiesto al prof. Alessandro Volpi dell'Università di Pisa una sua riflessione sulla nonviolenza, come contributo per un approfondimento di quegli elementi che stanno alla base della marcia stessa.


Penso che al di là della fondamentale dimensione dell'agire individuale e collettivo, la nonviolenza abbia un compito molto importante in relazione all'esigenza di una nuova partitura concettuale rispetto al lessico della politica in senso lato.

La fine della guerra fredda e il mondo dell'iperpotenza statunitense, affiancata dall'emergere della grande incognita cinese, hanno stravolto alcune catene linguistiche partorite dal Novecento "lungo", quello iniziato dopo il 1870. Guerra/conflitto/repressione sono stati derubricati a fenomeni omogenei nella sostanza e inseribili nella quotidianità dell'ordinario perché decontesutalizzati, depotenizati semanticamente e posti, appunto, in sequenza stretta.

Le guerre non hanno più un incipit formale ed una fine compiuta, divantano fenomeni endogeni per intere aree mentre i conflitti assumono contorni generali quanto sfumati dove la lotta sociale è assimilata al fenomeno malavitoso, dove le aspirazioni plurali sia in termini religiosi che politici sono spesso accomunate al fanatismo e al ribellismo confuso.

In questa alea oscurante, la repressione diventa lo strumento legittimo dell'autodifesa rispetto ad una normalità aggredita da fenomeni che proprio lo stravolgimento del linguaggio ha enfatizzato mescolandoli con realtà, la guerra in primis, che dovrebbero avere ben altra definizione.

Il terreno dei grandi processi migratori offre un esempio palmare in tal senso. Il migrante che fugge da una guerra, "ridotta" a conflitto etnico ed endogena perché confusa con carestia naturali, non è un profugo ma "soltanto" uno sfortunato che fugge dalle sue stesse colpe. Non ha diritto quindi allo status di rifugiato e, per di più, costituisce un elemento di tensione sociale nei luoghi di destinazione nei confronti del quale è giustificato l'uso della repressione come autotutela delle comunità ospitanti.

Rispetto a simili stravolgimenti concenttuali, il lessico della nonviolenza ha il dovere di rimettere chiarezza nel repertorio dei termini per ricostruire il tessuto della verità e quindi elaborare le soluzioni ispirate dalla "giustizia".

Si tratta di un lavoro di destrutturazione e di componimento che solo la nitidizza del patrimonio nonviolento può avviare perché rappresenta un punto d'origine da cui far discendere le mediazioni di Galtung e, al contempo, le pratiche dolorose di Simone Weil.

L'orrore della guerra e la perimetrazione aperta dell'idea di conflitto come strumento della costruzione sociale che proprio la nonviolenza di Capitini e Dolci ha espresso sono i mezzi più efficaci per scomporre l'impasto artificiale su cui si fonda la paura innescata dallo stravolgimento del linguaggio.

Il percorso, però, temo sia ancora più difficile rispetto alle esperienze di Dolci e Capitini che si ponevano rispetto ad un modo dato, dove le ideologie garantivano una fissità delle rappresentazioni rispetto alla quale era più semplice collocarsi.

Oggi la fluida vischiosità dello smarrimento culturale, che si polarizza e cerca di aggrumarsi in identità populiste, tanto gridate quanto fasulle, sposta costantemente gli orizzonti di riferimento e la nonviolenza deve inseguire la "banalizzazione" cruenta dell'esistente dove la perdita di contenuto delle parole e la sparizione delle idee ad esse sottese configura un colossale non luogo plastificato.

La natura consuetudinaria della violenza, privata di partizioni concettuali, rischia di creare un pantano melmoso in cui la contrapposizione decisiva diventa quella fra ordine e disordine, determinata in maniera paradossale proprio dalla celebrazione di un lessico disordinato rispetto al quale gli attrezzi teorici della politica sono del tutto inutilizzabili.