A cinquant'anni di distanza dal processo di Adolf Eichmann, la nozione di "banalità del male" teorizzata da Hannah Arendt ha ancora un senso?
L'11 aprile 1961 comincia a Gerusalemme uno dei processi più spettacolari del XX secolo, quello dell'uomo che, durante il regime nazista, aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. L'annuncio della cattura e del processo di uno dei principali attori della "soluzione finale" riapre un capitolo rimasto ancora in sospeso dopo Norimberga e attira l'attenzione e la curiosità di tutti coloro che, più o meno deliberatamente, cercano di dimenticare gli orrori della seconda guerra mondiale.
Che cosa aveva potuto spingere un funzionario a mettersi al servizio di un progetto folle e scellerato? Si trattava di un "mostro" o di un "uomo qualunque"?
Due anni dopo Hannah Arendt pubblica il proprio resoconto del processo e formula, per la prima volta, un'ipotesi scabrosa: Eichmann non è un "mostro"; chiunque di noi, in determinate condizioni, può commettere atti mostruosi. Ma si può osare parlare della Shoah evocando, anche solo come ipotesi teorica, l'idea che il male possa essere banale?
A Parigi, la Fondation pour la Memoire de la Shoah celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario del processo e organizza una serie di dibattiti e una mostra imponente: dall'8 aprile al 28 settembre il pubblico può avere accesso a molti documenti inediti, estratti di film, registrazioni e fotografie del processo.
A Washington, il Center for Advanced Holocaust Studies ospiterà a maggio un convegno internazionale con la partecipazione della storica Deborah Lipstadt che critica aspramente, nel suo recentissimo The Eichman Trial, la posizione della Arendt. Dopo David Cesarani e Saul Friedlaender, che contestano l'idea che la sola "macchina burocratica" abbia potuto portare avanti lo sterminio, la Lipstadt mette in discussione il concetto di "banalità del male".
Banalizzare il male contribuirebbe solo ad "assolvere" la cultura europea dalla colpa di antisemitismo.
Ma di quale banalità stiamo parlando? Hannah Arendt non voleva assolvere nessuno. Non intendeva fornire alcuna spiegazione storica della catastrofe nazista. Cercava una chiave di lettura antropologica e filosofica dell'azione umana. Della cattiveria. Dell'incapacità di rendersi conto del male compiuto...
Durante il processo, Eichmann non smise mai di proclamare la propria innocenza, spiegando come nella sua vita non avesse fatto altro che ubbidire agli ordini, rispettato le leggi e fatto il proprio dovere. "Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, nè demoniaco, nè mostruoso", scrisse allora Arendt per spiegare l´inspiegabile. Esiste una "banalità del male" che non si può non prendere in considerazione se si vuole evitare di ricadere nella spirale infernale dei genocidi. Non certo perché il male, in sè, sia banale. Nè perché coloro che lo compiono possano essere ritenuti banali. Ma perché tutti possiamo fare il male, talvolta senza rendercene conto, anche se non siamo nè sadici nè mostruosi. Non si tratta di negare che la perversione esista e che alcune persone provino una jouissance particolare nel far soffrire gli altri.
Si tratta piuttosto di spiegare che il bene e il male non sono separati da una barriera invalicabile. Anche se la barriera esiste sempre, superarla è molto più facile di quanto non si possa immaginare.
Nessuno di noi è al riparo dalla barbarie. Nessuno può sapere come si sarebbe comportato o come si comporterebbe in circostanze particolari. Anzi, tutti possiamo "banalmente" fare il male, perché barbarie e civiltà convivono in ogni essere umano. La cieca obbedienza al dovere può indurre chiunque ad agire senza riflettere. E quando si smette di pensare, non si è più capaci di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il concetto di banalità del male non è dunque nè un semplice slogan, come commentò Gershom Scholem al momento dell'uscita del libro di Hannah Arendt, nè un modo per minimizzare quello che la stessa filosofa tedesca considerava "la più grande tragedia del secolo".
Al contrario. È forse l'unica possibilità per spiegare la radicalità del male umano: radicale proprio perché banale; radicale perché tutti possono farlo, talvolta banalmente, anche se alcune persone scelgono di non farlo. Non è difficile capire perché si faccia il male. La vera difficoltà è altrove: come si fa a fare il bene, quando è così facile scivolare nella barbarie, quando basta lasciarsi andare al flusso delle pulsioni per dimenticare la nostra comune umanità?
Dal quotidiano "La Repubblica" dell'11 aprile 2011
Fonte: Centro Ricerca per la Pace di Viterbo
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Hannah Arendt e la banalità del male
- Michela Marzano
- Categoria: Approfondimenti sulla nonviolenza
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