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Un despota alleato inevitabile: i seguaci europei di Putin e l'alleanza con Assad

Non c’è soltanto Romano Prodi. Anche l’ex ministro degli Esteri francese, fondatore di Médecins Sans Frontières, Bernard Kouchner, pur non avendolo mai apprezzato, ha riconosciuto che, nella partita siriana, il leader russo si è dimostrato «un grande giocatore di scacchi» e che «in questa fase sembra avere sempre una lunghezza d’anticipo». Laddove l’altro giocatore sarebbe il presidente degli Stati Uniti. In effetti c’è qualcosa che non torna nella strategia anti Isis dell’Occidente. Punto primo: definiamo il Califfato «nuovo nazismo», con ciò conferendogli — se le evocazioni storiche hanno un senso — il rango di nemico numero uno.

A questo punto la logica imporrebbe di considerare alleati pro tempore o in ogni caso non nemici tutti quelli che si oppongono all’Isis. A cominciare dal despota siriano Bashar al Assad (stendendo momentaneamente un velo sulle sue nefandezze scrupolosamente riepilogate qualche giorno fa sul Foglio da Daniele Raineri). Quell’Assad il cui potere adesso vacilla e che evidentemente Obama ritiene conveniente sia tolto di mezzo per bilanciare un fattivo impegno contro le milizie di al Baghdadi.

Una bizzarria.

Anzi come se — in considerazione del fatto che ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler ( 30 gennaio 1933) Stalin aveva già provocato la morte di almeno tre milioni di persone, tre le stava facendo fuori nel genocidio ucraino, e altre sei le avrebbe sterminate nel corso degli anni Trenta — come se, dicevamo, nell’ottobre del ’42, allorché i tedeschi portarono gli scontri dentro la città che prendeva il nome da Stalin, gli angloamericani si fossero compiaciuti nel veder vacillare il potere sovietico. Invece i loro sentimenti furono opposti. E lo furono nonostante, ripeto, considerassero il dittatore georgiano alla stregua di un Satana e gli imputassero anche di aver facilitato quell’aggressione nazista alla Polonia da cui aveva avuto origine la Seconda guerra mondiale.

Certo, americani e inglesi all’epoca erano legati da un patto d’alleanza con i sovietici, ma erano consapevoli (quantomeno lo era Churchill) del fatto che, quando Hitler fosse stato debellato, il confronto con il leader del comunismo mondiale sarebbe stato assai duro. E seppero scegliere. Ebbero il coraggio di scegliere. L’Occidente di oggi no. Lancia proclami altisonanti contro l’Isis e sostiene milizie locali che si battono contro più di un nemico alla volta e che, fatta eccezione per quelle curde, non appaiono in grado di ottenere grandi risultati.

E come potrebbero ottenerli? Dove si reclutano persone disposte a combattere? Il New York Times ha calcolato che dal 2011 a oggi si siano trasferiti in Iraq e Siria circa trentamila foreign fighter, provenienti da oltre cento Paesi, per fare la guerra dalla parte dell’Isis. Thomas L. Friedman si è domandato se ha un senso che noi, per reclutare combattenti «nostri», andiamo alla ricerca dei moderati locali, «come un rabdomante fa per l’acqua con una bacchetta in mano». Se ha un senso doverli istruire, dal momento che nessuno deve addestrare i jihadisti i quali affluiscono in così gran numero e per giunta sono «ideologicamente incentivati». Ammettiamolo: «non esiste alcuna massa critica di siriani animati da ideali», scrive Friedman; «sì, combatteranno per le loro case e le loro famiglie, ma non per un ideale astratto quale la democrazia». Noi «cerchiamo di sopperire a ciò con l’”addestramento” militare, ma non funziona mai». Esistono, chiede ancora Friedman, «veri democratici nell’opposizione siriana? Potete scommetterci, ma non sono abbastanza e non sono organizzati, motivati e spietati quanto i loro nemici». E si può immaginare che Friedman pecchi di ottimismo: ammesso che quel ceto medio riflessivo di Damasco esista davvero, si deve ritenere che sia già emigrato in Europa o si accinga a farlo, anziché impegnarsi in un’impresa alquanto ardua qual è quella di impugnare le armi. Soprattutto in quella parte del mondo.

Ancor più ottimista ci è parso poi Bernard-Henri Lévy, reduce da un viaggio in loco. Nell’anniversario dell’11 Settembre, Lévy ha pubblicato un articolo in cui ripeteva una dozzina di volte, a ogni capoverso, che quelli dell’Isis «saranno sconfitti». «Saranno sconfitti perché le truppe del presidente Barzani possono riprendere Mosul quando vogliono: i piani sono pronti; gli uomini sono pronti; basterà qualche ora per riconquistare la pianura di Ninive e consentire ai cristiani e agli yazidi di ritrovare le loro case razziate. Le truppe aspettano un segnale, uno solo per sapere quando i sunniti rimasti a vivere sotto l’Isis ne avranno abbastanza di quei gangster e di quei teocrati assassini», i quali «finiranno come i khmer rossi con l’uccidersi a vicenda nella più grande confusione». «Saranno sconfitti infine perché la coalizione internazionale che si batte al fianco dei curdi un giorno si deciderà a dare il colpo di grazia». Un giorno? Più o meno quando? È senz’altro lodevole l’intento di infondere speranza nei cuori dei lettori che poco conoscono delle dinamiche di quel conflitto. Ma è pericoloso spargere l’idea che nell’area del Daesh (è il nome che lo Stato Islamico dà a se stesso) la vittoria sia a portata di mano. Perché se poi le cose, di qui a qualche mese, non dovessero andare nei modi annunciati da Bernard- Henry Lévy, c’è il rischio che in quegli stessi lettori subentri un senso di demoralizzazione. E lo sconforto, com’è noto, è meno effimero dell’euforia.

 

Fonte: Corriere della Sera del 06.10.2015
Segnalato da Tavola della Pace e della Cooperazione