Pubblichiamo la trascrizione, non rivista dai relatori, del dibattito svoltosi il 20 novembre 2016 organizzato da ACLI Cernusco sul Naviglio (Mi) – ACLI S. Polo (Bs) ACLI Martesana: Zone di Cassano - Cernusco – Melzo. Il testo ci è stato inviato da Angelo Levati.
Enzo Torri
Presidente circolo ACLI San Polo – Brescia
Desidero ringraziare Anna Zell che sarà una relatrice dell’incontro di oggi, bresciana di adozione e pastora della Chiesa Valdese di Brescia e Marco Dal Corso che conosce bene la realtà di Forneletti, non solo perché è veronese, ma anche per essere stato qui molte altre volte.
Abbiamo affidato loro il compito di sviluppare due temi nell’ambito dell’ecumenismo, temi quali l’incontro di Papa Francesco e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kirill e un ricordo dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero
Ringraziamo anche per la sua presenza di Roberto Rossini, presidente nazionale delle ACLI che terrà le conclusioni della mattinata.
Marco Dal Corso
Dell’Istituto di studi ecumenici S. Bernardino – Venezia
Buongiorno a tutti. Tornare in questa casa mi fa ricordare le mie precedenti visite e ciò ha anche a vedere con l’ecumenismo: qui ho imparato uno stile, non è solo problema di contenuti ma anche di stile, quello del dialogo e della solidarietà e questo insegnamento credo valga ancora di più per l’ecumenismo. Se le nostre chiese imparassero lo stile del dialogo, prima ancora di tanti documenti, forse l’ecumenismo sarebbe una realtà più vissuta, più feconda, più matura. Se ho ben capito il tema su cui discutere oggi dovrebbe essere l’incontro di Papa Francesco con il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kirill, avvenuto nell’isola di Cuba nel febbraio scorso.
Io mi occupo del dialogo interreligioso e insegno questa materia in un Istituto di studi ecumenici ed è forse questo il motivo per cui sono stato scelto da voi per approfondire il tema, penso comunque che nessuno di noi sia un tuttologo ed io non mi reputo un esperto di ortodossia, vorrei – con le chiavi del dialogo ecumenico e interreligioso – interpretare quel fatto a partire da lì.
Innanzitutto dobbiamo collocare quell’avvenimento a partire dalla cronaca: tutti noi ricordiamo ciò che è successo il 12 febbraio 2016 a Cuba, il papa è diretto in Messico e, all’aeroporto dell’Avana, si ferma un paio d’ore per un incontro veloce, verosimilmente preparato in precedenza, il che giustifica il fatto che poi si sia firmato un documento comune tra Papa Francesco e Kirill. Come raccontare ciò? E che storia c’è dietro questo avvenimento? E come questo segno dialogico segna e dove porta?
Sappiamo che in questo frangente stiamo parlando di un dialogo ecumenico e chi – nei vari media – si occupa di questi temi, normalmente viene chiamato “vaticanista”. Ora che a occuparsi di queste cose sia un vaticanista, è un primo problema di linguaggio tanto più è occuparsi anche di altri mondi: noi abbiamo un linguaggio molto in ritardo rispetto ad una teologia interreligiosa molto più avanzata. E come potrebbero raccontarlo i vaticanisti l’episodio di Cuba? Potrebbero farlo enfatizzando la notizia: “Papa Francesco incontra il Patriarca Ortodosso di Mosca”. Ma si potrebbe anche dire che è stato il Vescovo di Roma ad incontrare Kirill; sembrerebbero sinonimi, cioè di uguale significato, ma nel dialogo ecumenico queste affermazioni dicono cose molto diverse. E’ interessante sottolineare che il 13 marzo 2013, giorno della sua elezione, il papa si sia presentato come Vescovo di Roma, perché è il Vescovo di Roma che è papa nella comunità cattolica e non il contrario.
Un’altra cosa interessante in merito a come raccontare il fatto di Cuba è che il giornalista vaticanista magari non sa che il Patriarca di Mosca è parte di quella storia per cui la Chiesa Cattolica incontra la Chiesa Russa avendo come riferimento lo scisma del 1054.
In realtà questo non dice della storia della Ortodossia in Russia, perché il Patriarcato di Mosca è una eredità da Costantinopoli, non dallo scisma.
Anche questi fatti, nel dialogo ecumenico, vanno raccontati perché, se lo facciamo in un modo hanno un significato, se lo facciamo in maniera diversa ne hanno un altro; questo significa anche convincersi che questo fatto non è né casuale, né episodico, ma una storia e dietro al documento firmato all’Avana c’è un lavoro di anni della Commissione bilaterale tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa. Non esiste una grammatica ecumenica che vada sempre bene ed in qualsiasi occasione, vorrei dire che non c’è un esperanto ecumenico: quando la Chiesa Cattolica dialoga con il mondo ortodosso, la sua grammatica tiene conto di sensibilità, di spiritualità, che sono temi comuni, mentre quando si incontrerà e dialogherà con il mondo protestante, intesserà relazioni ma comunque con persone di confessioni cristiane diverse.
Il dialogo – è bene ricordarlo – è sempre con le persone, non può essere un sistema speculativo: allora, incontrare l’ortodossia significa che, dal punto di vista della geo-politica, potrebbe essere una esigenza diplomatica, ma dal punto di vista del senso quando dialogo con l’altro, con il mondo ortodosso di Kirill, la mia grammatica non è neutra, ma terrà conto – reciprocamente – di una specificità che cambia a seconda della persona con cui dialogo. Un’ultima cosa in questo senso è segnalarvi che la commissione che ha preparato il Documento di Cuba viene da lontano, ha un percorso più che decennale, con incontri di vario tipo, dove si mettono a tema i contenuti del dialogo con il mondo ortodosso: in un incontro si parlerà di sacramenti, in un altro addirittura all’episcopé, cioè all’autorità del governo della chiesa; questo, che è un tema importante, non è – ancora una volta – fuori dal contesto. Si può parlare di episcopé ridiscutendo il senso del ministero petrino, quale ne sia il carico del dialogo con le altre confessioni cristiane, tanto più con l’ortodossia.
Certamente questo discorso non è neutro, non è fuori dal contesto, ma risente anche delle relazioni storiche: allora, quando nei confronti dell’ortodossia inizierà l’invio di missionari in terra di Russia. (mi riferisco alla decisione promossa dall’allora Papa Giovanni Paolo II°). Questa cosa sarà sentita dal mondo ortodosso come una presenza problematica, perché una scelta di questo genere presuppone portarsi dietro in Russia l’apparato materiale, soldi e quant’altro. Tutto questo è visto e sentito – da parte russa – come atteggiamento di proselitismo: ora, se vogliamo sentire sulle stesse corde il tema del ministero e, nel frattempo, la storia si muove così, evidentemente questo diventa un problema. Tanto è vero che l’apprendimento sul tema del ministero si è interrotto lì.
Un’ultima cosa su come raccontare l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca di Mosca: non posso farlo solo in termini di novità che finisce lì, ma devo tenere conto nello specifico, nel rapporto con i fratelli e le sorelle ortodosse di Mosca e della Russia, della storia e del suo contesto ecclesiale, ad esempio, dovrà capire il grande tema delle Chiese Uniate, a cui il documento rimanda in qualche maniera, che vuol dire tutta quella realtà di chiese che appartengono culturalmente e liturgicamente allo stile ortodosso, ma sono in comunione e in unione con Roma: sono chiese cattoliche presenti dal sedicesimo secolo in poi nel mondo dell’Est. Queste Chiese Uniate vengono chiamate così dagli ortodossi, dove il termine non ha un senso solo descrittivo ma peggiorativo: sta indicando quelle comunità che, invece di stare lì, sono con Roma.
Io non posso continuare questo racconto se non ho presente la storia stessa dell’ortodossia nei Paesi dell’Est, soprattutto in Russia, e cosa ha significato essere chiesa in una stagione recente, quella prima e dopo il muro di Berlino, soprattutto se non conosco e non mi confronto con il concetto di sinfonia che, nel mondo ortodosso, descriverebbe la foto tra potere civile e potere religioso, tra teologia ortodossa e il potere temporale: questo spiega il carattere nazionale delle chiese ortodosse. Infatti noi sappiamo che la chiesa ortodossa fa riferimento al Patriarcato di Mosca, ma evidentemente c’è il Patriarcato di Costantinopoli e l’ortodosso a Costantinopoli (Istanbul) non obbedisce al Patriarcato di Mosca, ma fa riferimento a quello di Costantinopoli. Questa storia si spiega con la sensibilità e la spiritualità della teologia ortodossa e interpreta il rapporto con il potere civile, temporale in “modo sinfonico”, come una possibile collaborazione.
Questa cosa aveva un significato ai tempi dell’Unione Sovietica e ne ha un altro oggi intrigante, nel rapporto con la chiesa ortodossa a Mosca e l’attuale governo russo: il rapporto del “do ut des” e questo interferisce, ma lo devo raccontare non solo dal punto di vista descrittivo o problematico ma anche recuperandone il valore spirituale e teologico. Detto questo, va molto oltre un titolo di giornale, chiede una interpretazione attenta ai soggetti e alla storia. Le altre due cose che volevo dire sono in ordine ad un passato che parla ancora e sta dietro all’incontro di Cuba ma, ancora più interessante, parla del futuro di questo incontro.
Dietro questo incontro c’è un passato recente che pesa nell’economia della discussione, tanto che il documento lo riporterà, (mi riferisco al documento intitolato “Dichiarazione comune tra il papa e il Patriarca di Mosca” che si può trovare sulla rivista “Il Regno” n. 3 del 2016) sottolineando la divisione tra le chiese ortodosse facendo riferimento – in particolare – al contesto ucraino che fa riferimento a Mosca, poi ce n’è un’altra con lo stesso nome – Chiesa Ortodossa Ucraina – ma che, dopo la caduta del muro, rivendica la propria autonomia ed è il Patriarcato di Kiev, poi ci sono le Chiese Cattoliche di rito orientale e le Chiese Cattoliche, formate da piccole comunità, di rito latino.
Diciamo che il mondo delle comunità cristiane è ancora diviso, ma oltre a ciò, vive una situazione di conflitto e questo, nello specifico della Russia, non può non tener conto di un atteggiamento proselitista così come è stato interpretato negli anni ’80-90, con l’arrivo della gerarchia cattolica in terra di Russia e il documento cui facevo riferimento più sopra, non può non tenere conto dell’attuale ruolo del Patriarcato di Mosca che, si pensa oggi, con ruolo di guida. Oggi, quando noi parliamo di ortodossia, pensiamo a Costantinopoli: in realtà Costantinopoli, geopoliticamente e, ancor più demograficamente, è una comunità simbolica dal punto di vista dei numeri.
La cosa è molto diversa se parliamo di Mosca perché, da diversi punti di vista, essa rivendica di essere al posto di Costantinopoli nell’assumere il ruolo di guida dentro il mondo ortodosso. In realtà, noi avviciniamo il dialogo con il mondo ortodosso attraverso il Vescovo di Roma e il Patriarca di Costantinopoli. In questo senso non possiamo non riandare con la memoria ad un importante incontro avvenuto negli anni ’60 tra Paolo VI° e il Patriarca Atenagora di Costantinopoli, incontro che sottolineava la dimensione del dialogo attraverso il saluto del Patriarca il quale, rivolgendosi al papa lo chiama “Pietro”. A diversi decenni da allora, quando Papa Francesco incontra il Patriarca di Mosca lo chiama “Andrea”.
Questo evidentemente è la storia di come ci si può incontrare attraverso quello che ci unisce e che ci accomuna: è la storia degli apostoli, Andrea per il mondo ortodosso e Pietro per quello cattolico. La storia recente delle chiese ortodosse, in particolare quella dell’ortodossia russa, ha questo significato: vuole essere – e lo rivendica – il ruolo guida, anche sui temi del dialogo, in qualche maniera esso è sotto l’attenzione della chiesa del Patriarcato di Mosca che, per il fatto di essere importante numericamente e storicamente, su questi temi vuole dare la propria opinione. In tutto questo contesto, non è indifferente sottolineare la “sinfonia” dell’attuale Patriarcato di Mosca con il governo russo in una politica di “do ut des” di cui parlano gli analisti, la qual cosa fa pensare a poca libertà nei confronti della politica russa.
Comunque la novità dell’Avana va sottolineata, sia in ordine ai temi sia al metodo. In ordine ai temi questo si evince dalla lettura del documento – breve – che peraltro rimarca cose antiche, ma è importante che le dica e le rimette in gioco. Questi temi sono: la dimensione teologica del dialogo, tenendo presente che questo si avvale di un respiro e di una spiritualità. Il tener conto del peso della storia nella propria auto comprensione perché per dialogare con chi è diverso da me, devo essere disposto ad apprendere in modo diverso: è difficile dialogare con l’altro non volendo significare – parlando di teologia – di elezione. Se quel concetto lo vedo come privilegio diventa una categoria che pone un limite al dialogo, se invece quel concetto lo ri-significo come responsabilità, il dialogo può andare avanti.
Un altro punto importante è quello delle divisioni all’interno dell’ortodossia, ma non solo e un ulteriore punto pone la problematica della componente politica nel concetto di chiesa nazionale e sottolinea la distanza che c’è fra vertici e base nella chiesa ortodossa e – forse – anche nella chiesa cattolica. Questi i temi dell’Avana, ma la novità sta anche nel metodo. Questo incontro avviene nel nuovo mondo, non in Europa ma in terra latino-americana, in terra caribena e questo vuol dire che dobbiamo prendere le distanze da una storia di divisione occidentale e, fors’anche, di categorie filosofiche occidentali. Ad esempio, con il mondo protestante, il concetto che ci distingue in ordine della transustanziazione è un problema spirituale o filosofico? Le due comunità, in altri contesti, latino-americano e africano, interpretano la loro fede ancora con categorie greche? Con Aristotele? Questa cosa impedisce che in quella nuova terra le due comunità possano dialogare?
Il fatto di discutere a Cuba significa che, senza essere sul documento, segnaliamo le divisioni. Forse le incomprensioni non sono più nocive di una storia di una storia filosofica, piuttosto che del patrimonio comune spirituale. Ma l’incontro a Cuba significa anche che dobbiamo prendere coscienza della fine della centralità del cristianesimo occidentale. E questo è una evidenza che non è solo una resa alla realtà, è molto di più. Quali sono i primi tre paesi per numero e presenza di cattolici all’inizio del ‘900? Impero Austro-ungarico, Italia e Spagna; un secolo dopo sono Brasile, Messico e Filippine e questo vale per il cristianesimo in generale, non solo per il cattolicesimo.
Tutto questo indica che, probabilmente, il cristianesimo che verrà sarà vissuto con modalità diverse e porterà la fine del cristianesimo occidentale come l’abbiamo conosciuto. Ripensando all’Avana e alla modalità dell’incontro, la novità è che sia avvenuto all’interno di un aeroporto il che mi fa dire (e non sono il solo) che il dialogo tra le comunità credenti deve avere uno spessore civile e politico, perché il dialogo fra le comunità religiose e confessionali diverse non è un problema interno alle chiese e basta, ma concorre al vivere civile. In tutto questo vedo una interpellanza dei nostri tempi, per quanto riguarda il concetto di laicità. Fino ad oggi abbiamo pensato che questo termine voleva dire escludere le religioni considerate un forum privato. Credo invece che ripensare il dialogo in aeroporto fra due credenti di confessioni diverse significhi invece concorrere (non abolire) alla laicità, pensandola come categoria inclusiva, dove anche le altre spiritualità messe insieme concorrono a come pensare la vita della comunità.
Anne Zell
Pastora Valdese
Buongiorno. Penso sia impegnativo ascoltare la relazione appena terminata, densa di pensieri importanti sullo stile del dialogo da imparare e insegnare ai nostri ragazzi. Credo che a Brescia siamo privilegiati perché i nostri giovani hanno un confronto con le altre culture tanto che le scuole devono tenerne conto e favorirne percorso con i giovanissimi che imparano un modo di convivere con stile di ascolto e di dialogo già in tenera età. Speriamo che facciano meglio di noi nelle diverse occasioni che sicuramente avranno. Ringrazio chi di dovere per questo invito, ma devo il mio ringraziamento anche alla mia comunità, perché in questo orario avrei dovuto essere con loro a celebrare il culto nella chiesa valdese di cui sono pastore a Brescia, in via dei Mille; oggi là c’è un predicatore locale del Ghana che mi sostituisce e dico questo anche per presentare la mia comunità e me stessa a voi.
Dunque, io sono pastora della piccola chiesa valdese a Brescia da sette anni, ho già avuto diverse occasioni di incontro con le ACLI e alcuni di voi quando ero a Milano, all’epoca del viaggio ecumenico a Basilea. A Brescia ho trovato una realtà simile a quelle che vivono tante nostre chiese del Nord-Est, ad esempio Verona, di piccole comunità che sono state arricchite negli ultimi dieci-quindici anni dall’arrivo di tanti emigrati evangelici. Se guardate l’ultimo dossier sull’immigrazione, vengono smentiti malintesi che sostengono come la nostra zona sia sopraffatta da una immigrazione, soprattutto musulmana; la realtà dei numeri – invece – ci dice che le presenze sono per lo più cristiane, tanti ortodossi, ma anche tanti cristiani cattolici e protestanti provenienti dall’Africa.
E’ interessante il fatto che la Chiesa Metodista, in Africa ha radici antiche: ad esempio, quella del Ghana è stata fondata in quel paese prima che lo fosse in Italia e questo capovolge alcune nostre certezze, perché i fratelli e le sorelle che vengono dal Ghana e che celebrano con noi il culto, vengono da una chiesa fortissima, molto presente nella realtà del loro Paese ma poi, in Italia, si ritrovano in una situazione di minoranza. Noi, nella nostra piccola comunità di Brescia viviamo – in qualche modo – la sfida di un dialogo interculturale: siamo tutti evangelici, magari metodisti o presbiteriani, ma le differenze culturali fanno sì che bisogna sempre trovare dei compromessi, dei linguaggi, ma soprattutto dare ascolto alle diverse sensibilità. Questa è una buona scuola che permette poi di affrontare anche il dialogo ecumenico e, ovviamente, quello fra le diverse religioni.
Siamo stati invitati a prendere spunto dai vari incontri avvenuti ultimamente ed anche di ciò che Papa Francesco – Vescovo di Roma – ha saputo dire, le porte che ha saputo aprire, le novità che ha saputo inaugurare e, per la mia parte, voglio ricordare brevemente le tappe con il mondo protestante e commentare questi avvenimenti.
Sicuramente per la Chiesa Valdese, è stato fondamentale l’incontro del giugno 2015 avvenuto nel Tempio Valdese di Torino e che rappresenta il primo incontro fra il papa della Chiesa Cattolica Romana con i rappresentanti ufficiali della Chiesa valdese-Metodista, mentre il dialogo con la Chiesa Luterana ha già più solidità. Infatti ad Augsburg, qualche anno fa, c’è stato il “Documento sulla Giustificazione”, cioè sulla grazia incondizionata: si sono trovati degli accordi, ma nella realtà italiana, con la storia specifica della Chiesa Valdese, è stato questo approccio voluto da Papa Francesco proprio a Torino alle pendici delle Valli Valdesi.
La Chiesa Valdese ha una storia molto particolare e, con orgoglio, comunichiamo che l’anno prossimo saranno cinquecento anni dall’inizio della Riforma che parte con Lutero: in verità, la Riforma ha radici molto più lontane e la Chiesa Valdese è l’unico movimento giudicato radicale prima della Riforma, che ha saputo poi aderire alla Riforma stessa e sopravvivere diventando chiesa protestante. Perciò, se parliamo delle celebrazioni nell’anniversario del cinquecento anni, consigliamo attenzione perché la Riforma ha varie sfaccettature e, soprattutto, ci sono dei precursori importanti.
Ovviamente è stata una storia sofferta, di persecuzioni, di condanne e solo nel 1848, finalmente c’è stata la svolta in Italia con la concessione dei diritti civili ai sudditi valdesi da parte di Re Carlo Alberto. In verità non veniva detto che la religione veniva accettata e posta sul medesimo livello di quella cattolica, anzi in quell’editto viene detto che nulla viene cambiato sulla questione della religione, ma avendo finalmente riconosciuto il diritto di cittadinanza, questo significava potere finalmente uscire dalle Valli Valdesi, che erano diventate un ghetto, con la possibilità di fondare delle chiese e delle comunità fuori da quella zona del Pinerolese.
Questo è un riconoscimento abbastanza recente e comunque è una storia poco nota e, a mio parere, se vogliamo celebrare ecumenicamente l’avvenimento della Riforma in modo positivo, questa storia bisogna conoscerla meglio: devo dire che dopo l’incontro a Torino e dopo la richiesta di perdono così sincera e rimarcata da Papa Francesco, alcune persone mi hanno chiesto personalmente e si sono chieste per quale motivo il papa chiedesse perdono. Successivamente all’incontro di giugno 2015, il Sinodo era stato invitato a dare una risposta ufficiale alla richiesta di perdono: da noi, il Sinodo è l’organo democratico che decide la linea della chiesa tutta e proprio il Sinodo ha discusso lungamente e in maniera animata, ad esempio sul fatto che noi non possiamo, a nome delle vittime, adducendo il fatto che per un vero perdono bisogna riconciliare le memorie, fare verità, fare luce sulle verità anche delle vittime, riscrivere una parte della storia.
Bisogna anche vedere quale storia c’è dietro ad alcuni personaggi dichiarati santi e se oggi il giudizio di santità sarebbe lo stesso. Detto ciò, alcuni giornali hanno titolato “Dio perdona, i Valdesi no”. Certamente non è stata accettata subito e con gioia la richiesta del perdono, è stato però detto che, se c’è stato percorso di riconciliazione, se davvero vogliamo aprire un nuovo capitolo nel nostro dialogo, ci sono anche altre tappe da percorrere. A mio parere, questa discussione è importante, ma nella lettera scritta come risposta ufficiale, questo passaggio si poteva anche tralasciare, giusto per evitare eventuali malintesi, soprattutto da parte di alcuni critici del cammino ecumenico. D’altro canto, in tutte le situazioni dove c’è stata sofferenza, ingiustizia e discriminazione, è necessario un percorso di verità e di riconciliazione, come accaduto in Sudafrica e in Ruanda, per fare veramente luce e incamminarsi verso un sentiero nuovo di riconciliazione e di perdono.
Vi dico però che, al di là di questa sottolineatura nella nostra discussione al Sinodo delle Chiese Valdesi, questa svolta è stata sottolineata come un nuovo capitolo nel cammino ecumenico, perché la richiesta di perdono da parte del Papa Francesco era una richiesta specifica, rivolta proprio alla Chiesa Valdese, ma in maniera molto diversa rispetto a quella fatta da Giovanni Paolo II°, che non era specificatamente dentro alla consapevolezza di questa storia italiana di una piccola chiesa minoritaria che ha rischiato di essere annientata.
Un ulteriore passo, ancora più importante sono state le prese di posizioni del papa in occasione della sua visita a Lund, (Scandinavia) dove ha addirittura affermato che teologicamente non ci sarebbe più motivo per una scomunica di Martin Lutero: sono parole fortissime che credo diano ragione a tutti coloro che da decenni si impegnano in un dialogo. Non è che con queste affermazioni Papa Francesco dica una novità, però – in qualche maniera – conferma ciò che già avviene nelle nostre comunità, nel riconoscimento reciproco delle ricchezze delle nostre diverse tradizioni. L’importanza di tutto questo è che ciò sia stato detto ufficialmente dal Capo della Chiesa Cattolica Romana, perché – in qualche modo – dà forza a tutti i movimenti ecumenici che, a volte, faticano a portare avanti il loro dialogo e le loro iniziative.
L’ultimo incontro, molto importante per la realtà ecumenica italiana al quale non ho potuto partecipare, è stato il convegno di Trento tenuto la scorsa settimana durato tre giorni, fra i rappresentanti delle chiese valdesi e luterane con quella cattolica. E’ stato scelto appositamente Trento, luogo della controriforma, luogo simbolico, come a dire che andiamo lì per aprire una nuova stagione di dialogo ecumenico. Con don Claudio, responsabile dell’ecumenismo della Diocesi di Brescia, si scherzava su questo fatto, si diceva che noi eravamo stati più avanti di Papa Francesco; infatti, nell’estate appena passata, avevamo organizzato un viaggio ecumenico sulle orme di Lutero con il Vescovo Monari e, per me, la cosa bella (pur se criticata da alcuni membri della mia chiesa) è che questo viaggio è stato pubblicizzato e annunciato fra i pellegrinaggi ufficiali della diocesi.
Io però penso che se un pellegrinaggio di questo tipo, con la presenza del vescovo della Diocesi di Brescia e con la pastora valdese che opera in Brescia, raccoglie l’adesione di due pullman di persone che vogliono conoscere meglio la Riforma, a me sta bene che tutto questo si possa chiamare pellegrinaggio. L’importante – al di là se definire questo viaggio pellegrinaggio che non turbasse chi non era d’accordo sul termine – è che questo excursus è stato un viaggio profetico perché, oltre alle diverse serate programmate, anche sui pullman abbiamo discusso assieme al vescovo i temi della Riforma, vista dal lato teologico: giustificazione, grazia, sacramenti, cioè le ragioni per cui Lutero aveva rinunciato alla confessione come sacramento, quella degli abusi del suo tempo.
Da parte del Vescovo Monari devo dire del suo apprezzamento della teologia di Lutero e, fra le righe, mi è parso di capire che anche per lui non c’è motivo teologico per non accettare la dottrina della giustificazione come esposta da Lutero.
Credo che quanto detto, siano messaggi che ci incoraggiano e ci invitano con questo stile dialogico e di ricerca della verità insieme, consapevoli che ciò non significa rinunciare a parte della nostra tradizione e della nostra identità, ma acquisire una maggiore consapevolezza sulla propria identità che ci permette poi di entrare in dialogo con identità diverse o con la stessa identità che si esprime diversamente. Sono consapevole che la figura di Lutero e la sua riforma ha correnti e sfaccettature diverse che bisognerebbe conoscere meglio, compresi i diversi personaggi locali poco noti della Riforma, come sarebbe da sottolineare il ruolo delle donne.
Voglio concludere con alcune tesi su come potrebbe avere senso celebrare questi cinquecento anni della Riforma: penso abbiate capito che quella di oggi non era una conferenza sulla Riforma e sui Valdesi; io sono pastora, non insegnante o professoressa, anche se al momento sono chiamata a coordinare un master in teologia interculturale che prende proprio spunto da questo invito ad imparare uno stile di dialogo da spendere nelle nostre comunità interculturali ma anche oltre, in una società italiana che ormai sta diventando multiculturale.
Alcune brevi idee: certamente la cosa più importante da celebrare attorno ai cinquecento anni dalla Riforma, è la riscoperta della Bibbia che Lutero e altri hanno voluto mettere al centro: questo è un aspetto fondamentale, già messo in luce diverse volte nel percorso ecumenico. Il dono che ci viene dalle chiese protestanti è la riscoperta della Scrittura e devo confessare che, nei miei anni in Italia – prima a Pinerolo, poi a Milano e adesso a Brescia – a volte sono molto colpita dell’invito del Concilio Vaticano II° e come in alcune parrocchie cattoliche sia nata una sete di conoscenza dell’Evangelo da gruppi di studio. Noto anche che, a volte, tutto questo è scontato nel mondo protestante, ma il desiderio di conoscenza della Parola di Dio lo trovo non nella mia chiesa ma altrove, forse come novità o come riscoperta del centro della nostra fede.
Io credo che più riusciamo – insieme – a rendere più ecumenica questa riscoperta, più riusciamo a rafforzare la nostra identità di persone che dialogano e, nel contempo, si aprono ad un confronto con persone di altre tradizioni. Questo significa essere più consapevoli della nostra storia, con le sue verità e i suoi capitoli bui, negativi ma anche con i suoi punti di forza; purtroppo in Italia e in Europa ci sono stati degli studi sulla consapevolezza della propria fede e i risultati sono stati devastanti. Se chiediamo ad alcune persone che si dicono cristiane di esprimersi su alcune verità bibliche o, comunque, nozioni di base sulla nostra fede e sulla nostra tradizione, a volte c’è davvero poca consapevolezza e poca conoscenza. Inoltre si nota che, talvolta, più uno grida a difendere l’identità cristiana e le sue radici, meno sa cosa questo significa.
Per come conosco le ACLI, credo che quanto detto più sopra, rappresenti un impegno importante all’interno del movimento, nell’aprire più spazi dove si discuta e ci si renda consapevoli cosa vuol dire essere credenti e vivere la fede nelle sfide del mondo di oggi, quello del lavoro, la salvaguardia del creato, delle sollecitazioni provenienti dalle nostre città e delle nostre realtà. Se vogliamo celebrare qualcosa, bisogna trovare forme di celebrazione insieme: vi sono state voci isolate nel mondo cattolico che hanno rifiutato questa possibilità “perché non c’è niente da celebrare”. Ci sono però anche voci favorevoli, in primis quella del Vescovo di Roma a sostegno del “sì, c’è qualcosa da celebrare”, e allora facciamolo, in modo ecumenico, sottolineando che la Riforma, con tutto ciò che c’era dietro di negativo, di sofferenza, comprese le guerre scatenate non tanto dalla Riforma, ma da principi, da re o da imperatori, ma dalle perle che oggi vanno sottolineate.
Bisognerebbe anche tenere presente la questione della verità e sapere porla in modo corretto: purtroppo, lungo la storia, questa questione ha significato stabilire delle verità non dinamiche, ma verità fisse, statiche, che poi hanno escluso altre, classificate come eresia. Guardando a tutta una serie di movimenti, un tempo bollati come eretici, oggi vediamo che proprio questi movimenti avevano in sé tracce di luce e di verità oltre a un potenziale critico che avrebbe saputo riformare la chiesa. Cosa che spesso è avvenuta in ritardo! Ad esempio, leggendo oggi Oscar Romero, la Chiesa cattolica, per anni, non ha saputo cogliere la voce della Teologia della Liberazione e se guardiamo la storia delle nostre chiese, nella ricerca della verità, è necessario ascoltare molto bene le voci del dissenso e cercare e trovare un concetto della verità diverso rispetto a come è stato tante volte nella storia, non solo per quanto riguarda la teologia cattolica ma la teologia in generale.
Sono d’accordo con quanto accennato prima e cioè che nostra teologia tutt’ora è molto euro-centrica e molto inculturata con la nostra filosofia, con l’illuminismo: se guardiamo alle teologie emergenti dell’Africa post-coloniale, dell’Asia, ci sono voci autorevoli che ci portano altri concetti, altri modi di vedere la stessa verità, che ci interrogano e ci invitano a rinnovare il modo di vivere la nostra fede. E questo è uno dei punti fondamentali per celebrare bene i cinquecento anni della Riforma, non guardando solo al centro dell’Europa, ma volgendo lo sguardo anche ai tanti cristiani d’Africa, America latina e Asia.
In questi anni, avvicinandosi alla celebrazione dell’anniversario, sono stati affrontati diversi temi, l’ultimo è stato quello della “Riforma e unico mondo” con uno sguardo forte sui cristiani e i credenti nei Paesi dell’Africa, Asia e America Latina chiedendoci cosa possa significare per loro fare memoria della Riforma ed elaborare anche lì richieste di perdono per prepotenze avvenute in seguito alla colonizzazione che hanno portato i colonizzatori a imporre, oltre il Vangelo, la propria cultura. Se si va on line si trovano tutta una serie di fotografie sulla storia della missione: ad esempio, in quella di Basilea c’è tutto l’archivio delle foto dei primi missionari in Africa e in Asia, alcuni dei quali hanno ammucchiato nel centro del villaggio (in questo caso in Ghana) tutti gli strumenti musicali tradizionali cui dare fuoco perché definiti “pagani”.
Era vivo il concetto che di tutto ciò che rappresentava la cultura autoctona, bisognava fare tabula rasa, per poter fare posto all’evangelo. Ci sono voluti decenni perché questi cristiani – nostri fratelli e sorelle – potessero riappropriarsi della propria cultura e del proprio Paese, festeggiando e danzando, usando tamburi e altri strumenti locali. Anche in questo ambito è necessario un passaggio di riconciliazione delle memorie, che interroga anche il nostro mondo, nel quale abbiamo voluto esportare non solo l’evangelo, ma anche la nostra cultura che, non è detto, sia sempre la migliore.
Celebrare la Riforma di cinquecento anni fa e farne memoria, vorrebbe anche dire che – più che ricordare un evento storico – ricordarsi che la Riforma, più che un’epoca storica, è uno stile di vita del come essere cristiani e, come tale, esso può diventare veramente ecumenico, perché se prendiamo sul serio la nostra fede e l’evangelo, la nostra esistenza, il nostro modo di essere e di credere e di impegnarci, lo dobbiamo sempre rinnovare, misurando la realtà che è intorno a noi, nelle persone che incontriamo, nelle sfide che ci vengono poste. Per questo il mio invito sarebbe di affrontare in questo anno di celebrazioni non tanto come evento storico ma nel ricordare che la nostra stessa identità, deve diventare una identità che siamo sempre disposti a rinnovare in uno stile di dialogo e di ascolto reciproco di tutte le persone che, da ogni luogo del mondo, vengono a far parte della nostra realtà e della nostra casa comune.
Dibattito
- Le ACLI, tra le altre questioni, da tempo si stanno impegnando anche sul problema dei rifugiati che sfuggono dalle persecuzioni. Chiedo se la questione oltre ad essere umanitaria e politica, è anche questione ecumenica e interreligiosa. Penso che Papa Francesco sia figlio del Concilio Vaticano II°, soprattutto per la sua visione ecumenica, però che fatica ad essere accettata proprio all’interno della chiesa cattolica forse perché c’è una forte presenza di settarismi intra-cattolici che non accetta alcun dialogo. Vorrei infine fare una battuta: come mai per molti cattolici è più facile andare d’accordo con protestanti e ortodossi, piuttosto che tra cattolici?
- Come ha illustrato Marco nella sua relazione i vaticanisti si sono posti davanti all'incontro di Cuba utilizzando un linguaggio in ritardo coi tempi, ma enfatizzando molto la simbologia che quell'incontro poteva avere. I simboli sono si molto importanti, ma ambivalenti perché per chi è auspica l'ecumenismo sono positivi, ma per chi è contrario aumenta le paure e la chiusura. Le une e le altre infatti, ho notato che sono state molto rafforzate dagli editorialisti italiani suscitando reazioni contrastanti.
- Vi sono aspetti negli interventi che ho sentito riemergere che ci aiutano nella riflessione. In tanto è molto bello che sia un papa gesuita a dare queste aperture nel dialogo ecumenico, tenendo presente i motivi della nascita della Compagnia di Gesù e i passi significativi che si stanno facendo rispetto al mondo protestante. Credo sia importante in questo processo di riflessione ecumenica a questa esperienza che parte dalle realtà più basse, come quelle veronesi che hanno tentato un dialogo con il mondo ortodosso che, se divulgato, ci aiuterebbe ad ampliare questo percorso. Un ulteriore aspetto è il decentramento del cristianesimo presso altri paesi, in modo particolare l’America Latina dove – ad esempio – la Pastorale della Terra in Brasile è ecumenica, così pure una riflessione approfondita sul Vangelo. E’ fuori di dubbio che stiamo vivendo una caduta di valori e di etica e quanto urgente sia la necessità di riferimenti valoriali che il mondo delle fedi può dare e che interpella noi come cristiani di fronte all’aridità che stiamo respirando.
- Credo che valga la pena ricordare che la Chiesa Valdese è stato il movimento precedente la Riforma di Lutero che non è stato spento, anche se ridotto. Vorrei chiedere alla pastora quali sono stati i momenti di maggiore persecuzione di questo movimento che, mi pare, sia partito dal XIII° secolo. Sul rapporto con gli ortodossi, noto che Papa Francesco sta criticando il proselitismo: si può ritenere provocatoria la nomina fatta, a suo tempo, da Papa Woityla di un amministratore apostolico a Mosca, violando così uno dei principi fondamentali dell’ortodossia che, in ogni luogo dove c’è un vescovo di una chiesa cristiana, non ci può esserne un altro. Peggio ancora, quell’amministratore apostolico era polacco.
- Solo per sottolineare uno dei segni dell’incontro di Cuba all’aeroporto che è il segno più importante che ha alle spalle - per Papa Francesco – la Evangelii gaudium – con un capitolo specifico sull’aspetto sociale dell’evangelizzazione – la Laudato sì – e quindi credo che il discorso ecumenico debba sì proseguire sul piano teologico e de principi, ma debba partire soprattutto dal basso sull’aeroporto, cioè sul mondo, sulla costruzione del Regno. La riscoperta del Vangelo credo sia da lì che – soprattutto a livello di base – dobbiamo riavvivare ridando forza ai temi della prima Assemblea Ecumenica di Basilea: pace, giustizia e salvaguardia del creato. Attraverso queste tematiche l’impegno comune nel costruire un mondo secondo la visione del Regno. Vorrei chiedere ai relatori come si pongono i giovani di fronte a questi temi, anche perché in Europa siamo di fronte a rigurgiti di chiusura identitaria.
- Essendo le parrocchie terreno privilegiato per queste tematiche, sono in grado di assolvere il loro compito?
- Da molti anni, nella nostra Brianza si promuovono incontri con gli amici ortodossi della Comunità Sretenje di Mosca e loro ci hanno già insegnato che il continuo incontrarsi crea scalini in più verso una comprensione e un avvicinamento in quella che potrebbe essere la parte ecumenica della nostra conoscenza. Quello che interessa capire è come la fede c’entra in tutto questo discorso: le diatribe passate, quando Lutero ha voluto uscire da questo percorso, oppure la nostra fede serve a fare crescere questo nuovo umanesimo cui ci chiama la realtà di oggi dove immigrati che scappano dai loro paesi in guerra, quando arrivano da noi non chiedono solo lavoro, ma anche un modo i integrarsi con la loro fede.
- Ho sentito parlare di Pastorale Ecumenica della terra in Brasile: perché non tentare, attraverso l’ecumenismo di mettere insieme i sindacati in Italia? Le ACLI milanesi, negli anni ’50 hanno usato le loro case di soggiorno per momenti di incontro informali dopo la rottura sindacale del 1948. Luigi Mandelli ha tenuto personalmente questi incontri con CGIL-CISL e con la UIL in seguito per tentare un accordo. Io credo che questo sia uno dei compiti principali delle ACLI, diversamente ci accontentiamo di fare quel volontariato che ci appaga.
- Le ACLI lombarde, in diverse realtà stanno facendo l’esperienza di collaborazione con i russi. La scorsa estate ci siamo soffermati molto sull’incontro tra Papa Francesco e Kirill. Bisognerà vedere come lo status politico russo reagirà. Ci piacerebbe allargare l’esperienza con Bergamo e Brescia, sarebbe realistico questo desiderio?
- L’unico modo per provare a costruire un cammino comune è il dialogo: mi chiedo però se si sta pensando da qualche parte ad un cammino di decostruzione di tutti quegli apparati che hanno contribuito a far sì che questo cammino fosse divergente, né convergente, né parallelo. Ad esempio i dogmi che dividono e devono essere ripensati per poter ricrear un percorso che avvicini.
- Questa necessità di dialogo non dipende forse dal fatto che c’è meno radicalità, meno religiosità, ma piuttosto una filosofia di vita materialista?
Risposte
Anne Zell
Sulla storia dei valdesi in Italia: se poco fa ho affermato che per un percorso di riconciliazione bisogna fare memoria anche sui capitoli difficili, non è certo per coltivare dei rancori, ma la ricerca della verità in periodi di tempo in cui il dialogo non esisteva proprio o era comunque difficile. Credo non sia da trascurare che proprio un papa gesuita abbia chiesto perdono ai Valdesi: è stata proprio l’inquisizione gesuita che ha annientato la comunità valdese in Calabria nel 1561, sono stati letteralmente sgozzati i membri di tutta una comunità. Come peraltro alcuni anni prima, quando nelle valli piemontesi, con uno stratagemma militare sono stati introdotti nella case delle famiglie valdesi (era obbligatorio ospitare i militari) e nella notte ne hanno trucidato gli abitanti. Certo non è la stessa cosa di ciò che è successo in Germania, dove si sono scatenate guerre religiose in cui entrambe le parti hanno preso le armi. Comunque quelle in Italia sono state persecuzioni e stragi di innocenti di intere popolazioni.
Questi fatti bisogna conoscerli e ricordarli per essere pienamente coscienti dell’impegno che vogliamo prendere verso le persone emarginate sulla base della nostra storia, quando gli emarginati eravamo noi e siamo dovuti andare altrove: infatti i pochi superstiti valdesi, attraverso le Alpi, si sono rifugiati – trecento anni fa – nel Sud della Germania o in Svizzera, dove tuttora vi sono tracce di famiglie e i nomi di paesi che riprendono i nomi delle Valli Valdesi. Un vero esilio che poi gli stessi valdesi hanno reinterpretato rileggendo la storia del popolo d’Israele, tanto che in un libro della Storia Valdese si definiscono “Israele delle Alpi” e illustrano il rientro nelle loro valli come “rimpatrio sotto la guida di Dio”.
Alla luce di tutto questo e con lo sguardo rivolto alle persone che si vedono negate il diritto fondamentale di professare una religione diversa rispetto a quella vigente nel territorio in cui vengono trasferiti e ospitati, è nata una iniziativa che a Brescia vogliamo presentare in modo più ristrutturato: sono i cosiddetti “corridoi umanitari”, iniziativa ecumenica e anche Papa Francesco ne ha sottolineato la valenza nella Comunità di S. Egidio assieme alla federazione delle Chiese Evangeliche presenti in Italia. E’ forse poca cosa questo ponte aereo organizzato per far giungere direttamente in Italia chi fugge da guerre e situazioni disastrose, ma quanto meno queste persone non finiscono nelle mani degli scafisti. E questo è un impegno italiano che è di esempio in tutta Europa e, con buon volontà, potrebbe diventare prassi politica non solo italiana, ma adottata anche da altri paesi. Noi, come credenti, dobbiamo fare la differenza e qui entra in ballo la fede in Dio di ciascuno e la fiducia che ne viene ispirato un impegno verso il mondo verso la creazione e verso tutte le creature.
Se guardiamo al consenso che purtroppo hanno in Europa (e non solo) i vari movimenti di ultra destra che raccolgono percentuali non indifferenti sono movimenti che – pur essendo di forte identità – escludono ogni altra identità che non sia la loro.
In un intervento di stamattina, si è parlato di “decostruzione” di tutto ciò che ostacola il dialogo. Ora, noi sappiamo che decostruire, soprattutto quando si parla di istituzioni, è cosa molto difficile da fare: è come scavare nella roccia con una goccia d’acqua e sappiamo che però è possibile ma con tante gocce e questo significa prendere sul serio il richiamo del Vangelo, laddove dice di cercare per prima cosa il regno di Dio, ovvero di mettere come prioritario il nostro impegno per la giustizia, per la pace e per la salvaguardia del creato. Il che vuol dire individuare nelle nostre realtà non i proclami, ma laddove ci sono nodi che richiedono impegno e presa di posizione, attivarsi per scioglierli. E questo vorrebbe dire mettere al centro l’Evangelo che già – nell’essere credenti – il Regno inizia in mezzo a noi.
Marco Dal Corso
Notavo dalle domande un livello sociale e mi dicevo che la meraviglia è che è più facile parlare con un protestante piuttosto che con un cattolico come me, credo che questo abbia a vedere con il fatto che dobbiamo assumere l’idea che, in realtà, siamo di fronte a cattolicesimi, e questo nel riconoscimento di una onestà e di una sensibilità dell’altro. Da ragazzo sono stato al primo Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione: ora, la mia appartenenza cattolica è diversa da quella, ma riconosco che entrambe corrispondono a sensibilità diverse, così come riconosco che non debba più fare problema perché – appunto – siamo di fronte a “cattolicesimi”. Per quanto riguarda i giovani devo dire che – in generale – in parrocchia non ci sono più e come guardare a questo problema?
Parlando da padre: ho quattro figli già grandi, tranne l’ultimo e, come genitore, sono chiamato ad osservare che la mia forma storica di intendere l’appartenenza e il mio modo di vivere la fede non è quella dei miei figli. Il che significa che non l’abbiano, così come la stessa cosa la vedo a scuola dove insegno religione. Non siamo in presenza di atei o indifferenti (anche se ve ne sono), ma la nuova generazione è una generazione in ricerca, che però non sta più dentro le nostre forme storiche di proposte e questo penso che valga per le varie storie confessionali. Con mio figlio (19 anni) ci siamo trovati diverse volte, ciascuno di noi portava un brano sul tema della fede; io portavo, per esempio, Turoldo, lui Oscar Wilde… Discutevamo su questi mondi così diversi fra loro, ma trovando poi una comunanza di ricerca e una sensibilità in lui molto più acuta della mia. Dobbiamo vederla così come è, semplicemente, perché se lo facciamo dal punto di vista statistico, le parrocchie segnano un grande fallimento: in verità, forse la ricerca spirituale dei giovani forse sta da un’altra parte, ma c’è. Occorre riconoscerla e forse, il servizio più bello che possiamo fare, è permetterla e senza incanalarla nelle nostre forme.
Sulle varie domande sull’ecumenismo risponderei che esso ha innanzitutto un luogo dove esprimersi: se è l’aeroporto, biblicamente potremmo associarlo all’areopago di San Paolo ad Atene, è nella piazza che incontro, che coltivo la mia ricerca di senso e l’aeroporto è oggi il luogo dell’ecumenismo, così come lo è la frontiera. L’ecumenismo poi ha uno stile: diversamente da quanto ricordato sull’accusa del mondo ortodosso di proselitismo da parte di Papa Giovanni Paolo II°. C’è stato un incontro a livello della Diocesi di Verona con il Metropolita di San Pietroburgo: una esperienza partita dal basso, da un parroco, insieme ad un gruppo di persone che tutti gli anni (ormai sono dieci anni) si scambiano la visita e dove a Verona la Curia con il Vescovo – pur non essendone promotori – vi aderiscono tranquillamente in un dialogo a nutrimento dei nostri cammini.
E ancora: tre giorni fa, proprio a Verona, abbiamo celebrato il funerale di una amica carissima per anni presidente del Segretariato Attività Ecumenica (SAE). Lei aveva espressamente chiesto di non fare il funerale solito con la messa, ma di fare una celebrazione ecumenica e le persone che vi hanno partecipato hanno potuto nutrirsi della parola della Pastora che ha parlato al Vangelo, del prete ortodosso con una preghiera, una lettera dell’amico musulmano, così come ha fatto l’ebreo: una celebrazione davvero molto bella, nata dalla relazione delle persone.
L’ecumenismo comunque non si improvvisa, non si realizza con le sole buone intenzioni, richiede un metodo, quello della de-costruzione, mezzo assai importante da applicare al nostro linguaggio. Ricordo una ragazza, proveniente dalla Germania, al Liceo in prima superiore, si presenta dicendo di essere evangelica e i suoi compagni di classe chiedono che religione sia: si chiarisce il dubbio dicendo che la nuova compagna è di religione protestante e tutto si acquieta. Anche in questo caso il nostro linguaggio deve decostruire; dare dell’infedele al fedele musulmano suscita una domanda: infedele a partire da noi o a partire da lui? Il metodo del dialogo ecumenico porta a vedere gli altri a partire da loro, non a partire da me. Capita anche, come stamane, che sia un cattolico a parlare degli ortodossi è cosa possibile da farsi; il problema sarebbe chiedere ad un ortodosso se si sente interpretato da come noi raccontiamo di lui.
Un’ultima cosa sul metodo: (ricordando il riferimento ai dogmi) è bene ricordare il carattere narrativo dell’esperienza religiosa. Noi siamo credenti non perché ci hanno spiegato un dogma, ma perché ci hanno raccontato la storia e tutti i mondi religiosi hanno storie da raccontare; dunque recuperare la storia narrativa, piuttosto che quella dogmatica, non perché debbano essere in contrapposizione, ma perché il dogma è sempre il tentativo di dare ragione in una narrazione.
Infine l’ecumenismo ha un obiettivo, oltre che uno stile e un metodo, quello di spingere a una fede mai vista: nessuna religione ha il monopolio di Dio, nessuna confessione cristiana ha il monopolio di Gesù Cristo e, forse, è questo il senso ultimo dell’ecumenismo e del dialogo.
Da ultimo, sul tema rifugiati: è evidente che la crisi in ordine ai migranti, ai rifugiati, alle politiche migratorie, prima che essere una crisi sociale, essa è una crisi culturale in ordine all’ospitalità e qui trovo che le religioni hanno molto cui contribuire, non solo nei comportamenti, alla morale, all’etica dell’accoglienza ma in ordine ad un pensiero: tutte le religioni sanno che non è vero tanto il detto che recita “penso, dunque sono”. È vero piuttosto che sei stato pensato, dunque sei – per cui questo è un pensiero che le religioni hanno rispetto all’umano che – se raccontato – potrebbe aiutare in questa crisi dell’ospitalità.
Dico anche – ricollegandomi alla Riforma – che se le comunità ristiane prendessero sul serio la Bibbia, saprebbero che essa è alternativa al pensiero greco, che è identitario: “conosci te stesso”. Quello della Bibbia è un pensiero di alterità perché dice “abbi cura del povero, dell’orfano, della vedova, dello straniero”. Tornare a pensare con pensiero biblico, credo sia il contributo che le chiese cristiane potrebbero dare alla società di oggi e di domani.
Roberto Rossini
Presidente nazionale delle ACLI
Grazie dell’invito, anche a nome delle ACLI nazionali: so che da anni organizzate questa giornata che credo sia una ricchezza per le ACLI tutte.
Farò alcune riflessioni che hanno a che fare con la lettera “C”, cioè cristiano della nostra sigla e che ciò sia un elemento di profezia per la nostra organizzazione, perché ciò significa che il dialogo ecumenico lo abbiamo nel nostro DNA. In realtà, anche dal punto di vista organizzativo, noi abbiamo un accompagnatore spirituale, ma il responsabile della vita cristiana non coincide con l’accompagnatore spirituale, attualmente Padre Elio Della Zuanna che ci lascerà a breve perché è stato trasferito in Toscana dove darà vita ad una iniziativa molto innovativa: quello di dare lavoro ai carcerati, per cui stiamo ripensando con la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) – quale possa essere il nostro accompagnatore spirituale.
Il responsabile per ora, sono io, ma lo sarò assieme a Daniele Rocchetti, presidente delle ACLI bergamasche: non a caso abbiamo scelto lui, ma lo abbiamo fatto perché la sua iniziativa che, assieme alle ACLI bergamasche sta portando avanti, è esattamente il programma che pensiamo di proporre a livello nazionale, non a caso l’incontro nazionale di spiritualità, che era prassi tenere a Camaldoli, quest’anno lo abbiamo spostato al Monastero di Bose, che ha l’ecumenismo nel suo DNA, proprio per sottolineare che il recupero della dimensione spirituale vede l’ecumenismo come uno dei passaggi fondamentali.
Così pure vi comunico che il prossimo 30 novembre, ricordando la figura di Achille Grandi, a Roma organizzeremo una tavola rotonda con i Segretari di CGIL, CISL e UIL.
Devo anche dire che nel momento in cui la politica perde peso nel quotidiano, allora interviene la religione. Il problema è che la religione sta diventando un fatto politico: sarà forse questo che ha spinto i vescovi francesi a stilare, nell’ottobre scorso, un documento dal titolo “ritrovare il senso della politica”. Tenete conto che la conferenza dei vescovi francesi, cioè la CEI francese, un paese che è stato martoriato da attentati molto pesanti, è un Paese che ha investito molto sul tema della laicità, in maniera molto più avanzata dal come la intendiamo noi.
Questo documento, in maniera intelligente, dà spazio alla laicità, sottolineando il fatto che, quest’ultima ha creato uno spazio pubblico dove tutti possono esprimersi: dunque lasciamo che le religioni si esprimano e che consentano – esse stesse - a creare un dialogo, un confronto, un dibattito pubblico che favorisca alla politica di trovare un senso. Praticamente si rovescia il quadro cui siamo abituati proprio perché c’è uno spazio pubblico e dobbiamo creare un dialogo tra religioni diverse, proprio perché ci aiuta a trovare il senso della politica, il che significa ragionare sulle priorità, cioè le cose che consentono a tutti quanti di stare insieme.
L’etimologia stessa della parola “religione” va direttamente in questa direzione e non come elemento che divide: allora, visto che la politica è la ricerca delle priorità individuandone su questa base delle soluzioni, lo spazio pubblico di dibattito nel quale consento a tutti di intervenire – media compresi – non potrà che portare del bene alla politica stessa, cioè ritrovare le priorità che legano una comunità nazionale. Credo sia tutto questo ad avere spinto Papa Francesco ad una dichiarazione congiunta cattolico-luterana a Lund, che recita: “Ci siamo riavvicinati gli uni gli altri tramite il comune servizio al prossimo”, in particolare sui temi dei profughi e dei rifugiati, cioè l’elemento in questo momento prioritario, soprattutto – al di là dei numeri – per l’impatto simbolico che questo avvenimento ha nelle nostre comunità.
Allora il tema dello straniero, del profugo, del rifugiato, diventa l’elemento di concretezza sul quale tutti possono lavorare in quanto non è una disputa dottrinale, dando così un segnale al mondo. Di fatto è una forma di incarnazione, perché quando parliamo di concretezza, non stiamo certamente discutendo di principi astratti, ma di salvare delle vite e non è che possiamo farlo perché ritrovino una forma di integrazione all’interno delle nostre comunità, come dice la politica; io penso che tutto questo rappresenti una grande occasione per le religioni, tanto che il papa suggerisce un modo per aprire quel capitolo, a partire da un corpo nel quale c’è la presenza reale del Cristo. Qui ritroviamo il senso profondo di quella dichiarazione che recita “al centro della persona”: è qui il senso vero della persona, non solo e non tanto nella dichiarazione dei diritti ma in un afflato sostanziale, di cura comune che ci permette di lavorare insieme su alcuni temi.
Volevo anche dire che la dimensione sulla quale lavorare oggi è la dimensione culturale all’interno – peraltro vasto – della cornice interreligiosa. Certamente c’è la questione delle donne dell’Islam, ma per quanto ci riguarda più da vicino, che ne è delle donne dell’Occidente, tenuto conto delle donne dell’Oriente? In questo contesto al femminile, l’Islam ci sta ponendo temi importanti ai quali dare ascolto e risposte: in pratica una sfida culturale che mette in discussione il nostro modello di cultura.
Per quanto riguarda l’incontro a Cuba in aeroporto, a detta di un antropologo, quello era un classico “non luogo”, senza storia alle spalle, come potrebbero essere, ad esempio, i supermercati. Tuttavia il fatto che Papa Francesco e il Patriarca Kirill si siano incontrati in aeroporto, un significato lo dà: dobbiamo essere noi a risignificare i luoghi che il significato lo hanno perduto. Per noi ACLI credo che il dialogo interreligioso debba andare in questa direzione, pur non nei termini più direttamente religiosi, riuscire a dire “Dio” senza dire “Dio”, riuscire a dire senso “senza spiegarlo a parole, ma con fatti concreti, è il grande compito che ci aspetta, sperimentando e facendo quello che ci riesce di fare, nel confronto con l’altro.
Omelia della messa
Don Flavio Saleri, Parroco della Parrocchia di S. Angela Merici - Brescia
Celebrare Gesù il Re dell’Universo, vuol dire ascoltare quello che abbiamo sentito nella seconda lettura di Paolo “Lui ha la pienezza della vita, a Dio piacque di fare abitare in Cristo ogni pienezza, perché lui ha riconciliato a sè tutte le cose, quelle dei cieli e quelle della terra, è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti”.
Certo che è un Re strano, l’idea che ci facciamo del re è quella di uno che comanda, che grida, che dirige. Invece ce lo troviamo sulla croce, morente, ripudiato dagli altri, deriso; cosa vuole dire tutto questo? Vuole dire che, per Gesù, il contrario della morte non è la vita, se così fosse avrebbe salvato se stesso. Il contrario della morte è l’amore e per lui la cosa più importante è volere bene, dando tutto, fino in fondo: infatti ama ostinatamente fino alla fine.
Allora il regno di Dio non è il nostro mondo di adesso, quello che costruisce muri (non solo di cemento) quanti muri nelle nostre famiglie, anche dentro di noi, nella fatica del trattare con qualcuno, quanta fatica a perdonarci… abbiamo muri dappertutto.
Il Regno di Dio è il contrario, nel suo regno i muri vengono abbattuti: sappiamo bene chi fosse quel tale che, appeso anch’egli ad una croce, dice a Gesù: “ricordati di me”. Uno che nella vita aveva fatto i suoi sbagli, come tutti. Gesù non solo gli risponde che si ricorderà di lui, ma aggiunge “oggi sarai con me in paradiso”. Ed ha ragione Lutero quando afferma che solo da Cristo c’è la vita nuova e, prima ancora che cattolici, luterani, ortodossi si incontrano, il vero ecumenismo è che le varie confessioni vadano insieme a Cristo, perché solo lui è la vita nuova, solo lui che dà la grazia. E la fede è la sola risposta a un Dio che si dona totalmente e la Parola di Dio è la sola che ci dà la vita di cui abbiamo bisogno.
E questo vuol dire forse che il Regno di Dio nel mondo non c’è? Certamente sì, anzi il suo regno è germogliato in tantissime parti dove ci sono persone che si vogliono bene, che servono chi è nel bisogno, che lottano per la giustizia, che intessono il dialogo interreligioso, dove c’è ecumenismo, ciò vuol dire che il regno d Dio sta crescendo. E quando diciamo “venga il tuo regno” lo preghiamo perché compia tutta questa opera e, finalmente, tutti i muri - interni ed esterni – vengano abbattuti.
Vorrei sottolineare un fatto già notato da Papa Francesco: oggi c’è un ecumenismo straordinariamente potente, l’ecumenismo del sangue. Ci sono cristiani che per la pace, per i poveri, per la giustizia hanno dato la vita e lo hanno fatto nella loro veste di cattolici, protestanti e ortodossi. Questo è il regno di Dio, con tutta la sua potenza che si manifesta.
Sapete che, questa mattina a Roma, si è concluso l’anno del Giubileo: tra i vari cardinali presenti c’era anche quello del Centro-Africa che vive una situazione politica alquanto difficile e, in una trasmissione, commentavano che in quella situazione la Chiesa Cattolica, il Pastore protestante, l’Iman musulmano, tutti insieme, stanno cercando la pace e vengono chiamati dalla gente “i santi”. Questo è il dialogo interreligioso alla grande, che è sì fatto dagli studiosi, ma certamente anche dalla preghiera comune, dal servizio ai poveri. In questo senso ha ragione Papa Francesco quando dice che la vita si vede bene dalla periferia, perché è da lì che si vede l’essenziale della vita, cioè l’amore.
Uno può stare bene fisicamente, ma se non ama, ha una vita spenta: solo chi ama – e Gesù ce lo insegna dalla croce – è vivo ed è abitato da Dio e dal suo Regno.
Anne Zell
Dalla lettura di san Paolo mi sono rimaste impresse le parole dell’Apostolo che dicono che “in Cristo sono riconciliate tutte le cose”. Allora dobbiamo prendere sul serio anche ciò che Paolo dice su quello che è il nostro compito cioè di diventare noi ambasciatori e ambasciatrici di questa riconciliazione, di incarnare nella nostra vita, nella nostra fede e nel nostro impegno questa immagine di Cristo, imparando uno stile del dialogo, dell’ascolto, dell’accoglienza, di prendere sul serio le diaspore e di fare tutto ciò, partendo sempre dalla fiducia nel Signore, che era poi la vera fede del secondo malfattore, crocefisso come Cristo.
Facendo questo anche noi saremo ricordati per pura grazia nel nostro cammino di ambasciatori di riconciliazione della quale le nostre realtà, le nostre città hanno bisogno.
Fornelletti - Domenica 20 novembre 2016 – incontro organizzato da ACLI Cernusco sul Naviglio (Mi) – ACLI S. Polo (Bs) ACLI Martesana: Zone di Cassano - Cernusco – Melzo
(Le relazioni sono da sbobinatura – non rivisti dai relatori)
Fonte: Circoli ACLI di Cernusco sul Naviglio, S. Polo, Martesana
Segnalato da Angelo Levati