Si è celebrata nei giorni scorsi la Giornata Nazionale delle Vittime degli Incidenti sul lavoro. Il Capo dello Stato Mattarella ha inviato il solito rituale messaggio. Un discorso nel quale alla retorica presidenziale, immancabile in queste occasioni, si sono aggiunti indicazioni e bei propositi. Dopo aver esordito affermando che “un paese moderno si misura anche dalla capacità di creare e conservare ambienti di lavoro sicuri: morire sul lavoro, ammalarsi per una causa professionale o restare invalidi o mutilati a seguito di un infortunio sul lavoro non è accettabile in un contesto industriale avanzato” Mattarella ha invitato “ad adoperarsi affinché vuoti di legislazione non si traducano in assenze di tutele per i lavoratori e in incertezze applicative per i datori di lavoro”. Tutto bello, tutto giusto, tutto sottoscrivibile e sacrosanto. Ma c’è un ma grosso come i più grandi stabilimenti industriali d’Italia e d’Europa, un ma grosso come un macigno. Perché nel 2016 altro che “vuoti di legislazione”, le lavoratrici e i lavoratori si trovano davanti a molto di più: atti di alcune istituzioni e leggi che – de facto – non solo non lasciano vuoti ma denunciate perché peggiorano la situazione di chi lavora. In tanti, troppi, luoghi dello Stivale, dai cantieri alle industrie, dall’agricoltura alla logistica, al commercio e alla distribuzione alimentare, i lavoratori vivono sempre più precarizzati, ricattati, costretti a subire scarsissime (se non nulle) protezioni, orari di lavoro da schiavismo, insalubri e inquinatissimi ambienti, continui soprusi padronali. I ricatti, il precariato, non sono figli di nessuno, non sono una calamità improvvisa di sconosciute radici. Sono il frutto di ben precise scelte degli ultimi vent’anni, di quella narrazione che ha guidato leggi, istituzioni, enti e tanto altro sulla “bella flessibilità”, sulla “rigidità del mercato del lavoro” ostacolo alla prosperità e alla ricchezza della Patria, sui “troppi diritti” da cancellare. Quante volte abbiamo sentito dire “ma in Italia non si può investire perché i sindacati”, “ma quante ne vuoi, se non ti sta bene vattene che qua fuori c’è la fila”? Cercate il libro che detiene il record del maggior numero di pagine, e scoprirete che con queste “perle” se ne potranno riempire molte di più …
La Giornata Nazionale delle Vittime degli Incidenti sul Lavoro si celebra il 9 ottobre, il giorno prima il Ministro dell’Ambiente della Stessa Repubblica ha dichiarato che a Taranto non si rischia, che se ci fossero dei rischi lui agirebbe. Queste le conclusioni dello studio presentato da PeaceLink (http://www.peacelink.it/ecologia/a/43593.html ) nei giorni precedenti:
a) a Taranto si perdono 937 anni di vita in media ogni anno facendo un raffronto con la provincia;
b) a Taranto si perdono 1340 anni di vita in media ogni anno facendo un raffronto con la regione;
c) a Taranto si perdono 2665 anni di vita in media ogni anno facendo un raffronto con la provincia della Regione che ha la più alta speranza di vita (in genere è Bari la provincia con la migliore speranza di vita);
Disaggregando per maschi e femmine emerge che a Taranto sono gli uomini che perdono più anni di vita.
In particolare ogni anno gli uomini a Taranto
d) perdono 657 anni di vita rispetto alla media provinciale, 912 anni di vita rispetto alla media regionale e 1419 anni di vita rispetto alla provincia con più elevata speranza di vita.
Per quanto riguarda le donne
e) perdono ogni anno 280 anni di vita rispetto alla provincia di Taranto, 428 rispetto alla media regionale e 1246 anni rispetto alla speranza di vita della migliore provincia.
Un recentissimo studio dell’Istituto Superiore di Sanità (non un covo di comunisti sindacalisti conflittuali antagonisti di classe o di estremisti ambientalisti isterici, tanto per citare un certo alto narratore qualche anno fa …) ha osservato a Taranto tra i bambini di età compresa tra 0 e 14 anni “eccessi importanti per le patologie respirative” con un +24% di ricoveri tra i residenti del quartiere Tamburi e +26% tra i residenti del quartiere Paolo VI affermando che “c’è relazione causa-effetto tra emissioni industriali e danno sanitario”. Le emissioni a cui fa riferimento lo studio sono quelle dell’ILVA. Il rapporto dell’ultimo studio SENTIERI sui rischi per la salute riproduttiva in 18 Sin ha evidenziato a Taranto 531 casi di malformazioni congenite, 238 per 10.000 nuovi nati. Sulle condizioni all’interno dello stabilimento denunce e letterature sono ormai ampissime. Ampi riferimenti li ho riportati in quest’articolo http://www.qcodemag.it/2016/10/04/lavoro-lotte-diritti/ . “A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di tutti i tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta si moriva anche. Le morti ci lasciavano attoniti a pensare all’esagerato tributo da pagare in cambio di un lavoro di per sé duro e alienante” “lo stress derivava dal carico di responsabilità per l’esecuzione tecnica secondo precisi parametri e tempi sempre troppo limitati, dettati da gare al ribasso, che ci imponevano turni impossibili, arrivando a volte a lavorare per 16 e addirittura 24 ore di seguito” sono parole di una vedova di “vittima di incidente sul lavoro” scritte nel 2008. Sono passati otto anni ma trafiggono ancora il cuore e colpiscono come un pugno nello stomaco … Nel 2012 nel presentare lo spettacolo “Vico Ospizio – storie di vita e di fabbrica” Giovanni Guarino, l’autore, scrisse “Vico Ospizio è dove sono nato. E’ il vicolo incastonato nel dedalo di viuzze della Città vecchia, la parte più antica di Taranto. L’Isola. Circondata dal mare e assediata dall’Ilva, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Sono stato bambino in quei vicoli e ho avuto i suoni della città nelle orecchie, delle barche che rientravano all’alba dalla pesca, delle voci che riempivano i vicoli di richiami, dei “cunti” che la nostra zia Mimina ci raccontava ogni sera nel vicolo. Mentre io crescevo, però, la città lentamente moriva. Nel corso degli anni decine di scelte scellerate hanno ridotto la città di Taranto, l’antica capitale della Magna Grecia, in un coacervo di tensioni, rabbia e povertà. L’industria ha aggredito il territorio producendo fumi, veleni, disoccupazione e tensione sociale. Ma soprattutto morte e miseria. Le centinaia di morti cosiddette “bianche” sono una lunga lista di uomini che hanno pagato a caro prezzo il costo dell’industrializzazione. Una lista che non si arresta neanche oggi nel XXI secolo. A quelle si aggiungono le morti “nere”, quelle del cancro”.
Nell’articolo si è fatto riferimento alla logistica, ma basta girare litorali, paesi, città per trovare turni di lavoro più che massacranti e tanto altro anche in bar, ristoranti, piccoli e grandi esercizi commerciali. E l’unica risposta è sempre la stessa “ma cosa pretendi? Questo è il lavoro” “che ti lamenti? Non vuoi lavorare?” perché, che sia una piccola o grande fabbrica, il commercio o la ristorazione se provi a parlare di sindacalizzazione, rispetto del riposo, diritti, condizioni decenti di lavoro la colpa è tua, lavoratore che non vuoi lavorare. Nel 2016. Senza mai dimenticare la terribile piaga del caporalato e dello schiavismo in agricoltura. Nel documentario “Schiavi – le rotte di nuove forme di schiavitù”, citato nell’articolo, viene fatto riferimento anche all’unico processo in corso in Europa (almeno alla data di uscita, per quanto di conoscenza di Stefano) per induzione alla schiavitù. Nelle scorse settimane il pubblico ministero ha chiesto per i 16 imputati, in totale, quasi 170 anni. Qualcuno si ricorda di Paola Clemente? E’ passato poco più di un anno. Ha lasciato 3 figli a 49 anni, morta mentre lavorava anche 13 ore al giorno nei campi (http://www.fanpage.it/morire-come-schiavi-in-un-libro-l-orrore-del-caporalato/ ) di Andria. Paola era una delle almeno dieci persone strappate alla vita nelle stesse condizioni durante l’estate 2015(http://popoffquotidiano.it/2015/10/01/caporalato-la-strage-dei-braccianti/ ). Una realtà che incatena e sfrutta almeno 400.000 lavoratori in tutta Italia (http://www.fanpage.it/caporalato-in-400mila-lavorano-nei-campi-per-meno-di-2-5-euro-l-ora/ ). E intanto viene chiuso il progetto “Bella Farnia” (http://www.articolo21.org/2016/10/perche-hanno-chiuso-il-progetto-bella-farnia-di-sabaudia/ ) a Sabaudia che stava portando avanti enormi risultati nello strappare i braccianti (soprattutto indiani Sikh) dallo sfruttamento. Un progetto che, sicuramente, “era inviso a molti datori di lavoro criminali della zona, ai caporali, ai trafficanti umani (coloro che organizzano la tratta Punjab- Agro Pontino) , e a politici invischiati nella faccenda”. Recentemente Marco Omizzolo, il presidente dell’associazione In Migrazione che curava il progetto, ha subito minacce ed intimidazioni. Davanti a tutto questo la risposta delle istituzioni è stata la chiusura del progetto. In un lembo d’Italia, l’Agro Pontino, dove di recente L’Espresso (http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/09/21/news/agro-pontino-schiavi-al-lavoro-tra-i-rifiuti-tossici-1.283706 ) ha denunciato lo sfruttamento schiavista avviene anche “tra i rifiuti tossici”. L’incipit dell’articolo è a dir poco emblematico “trentuno fusti da 200 litri con la scritta Telone e 70 da 50 litri di Didiclor, liquidi tossici e pericolosi abbandonati tra serre di pomodori e carote; e poi 107 braccianti assoldati con un appalto che potrebbe essere illecito e persino un caporale che avrebbe preteso denaro per assicurare il lavoro. Un lavoro pagato appena 3 euro l’ora. Ogni giorno dall’alba al tramonto i braccianti indiani stanno piegati sui campi, sotto ricatto, costretti a vivere in condizioni disumane a pochi metri dalle ville di Sabaudia, seminando e raccogliendo la frutta e la verdura che arriveranno sulle nostre tavole”.
L’emergenza Nordafrica del 2011, il CARA di Mineo (e chissà su quante altre analoghe situazioni vige troppo spesso la cappa di un omertoso e vergognoso silenzio, si veda in proposito il dossier InCastrati della campagna LasciateCientrare http://popoffquotidiano.it/2016/02/25/migranti-incastrati-la-malaccoglienza-costa-un-miliardo/ ) – denunciato e documentato negli anni – hanno portato centinaia, migliaia di persone dritte dritte nelle braccia dei caporali e dello sfruttamento. Ma per tanti lor signori, in alto e ben seduti nelle poltrone sempre di questa “repubblica” è più facile e strumentale scendere in piazza, lanciare giri di vite, sgomberare e reprimere i migranti. Perché è più comodo togliere diritti a lavoratrici e lavoratori e poi urlare che la colpa è dei migranti, è di altri lavoratori. E’ più facile sponsorizzare e strillare propaganda contro inesistenti complotti e piani di sostituzione dei popoli, inventarsi le balle più violente e false che fare i conti con la realtà, con lo schiavismo e lo sfruttamento peggio che medioevali. E chi dovrebbe avere la schiena dritta, sbattere in faccia la realtà, con coraggio e amore di vera democrazia – moderni Savoia – chinano la testa e accetta tali propagande e non porta avanti politiche e leggi molto diverse (http://popoffquotidiano.it/2016/09/09/braccianti-stranieri-i-lavoratori-invisibili-che-lottano/ ).
Amianto. Una parola che tutti abbiamo imparato a conoscere e ad associare ad altre parole come cancro, malattia, morte, pericolo. Quanti articoli di giornale, quanti minuti televisivi, leggi sono state emanate in materia. Proibizioni che si perdono negli anni. Poi … http://youmedia.fanpage.it/video/aa/V_MDUeSwy8N-9ZtF “Morire d'amianto in Italia: "Lavoravamo al teatro comunale circondati dalla polvere killer”. Il teatro comunale è quello del Maggio fiorentino … Leggiamo nella descrizione del video su Fanpage.it “Cosa volete che sia, la polvere di teatro non ha mai ammazzato nessuno", dicevano ai lavoratori.
Il processo, oggi in corso, accerterà se esistono responsabilità per la mancata messa in sicurezza degli operai da parte del proprietario dell'immobile, cioè del Comune di Firenze, responsabile anche dei lavori di ristrutturazione. Per le conseguenze dell'amianto nel Teatro Comunale del Maggio Fiorentino alcuni lavoratori sono già morti; ne sopravvivono tre” che Saverio Tommasi ha intervistato “perché la loro storia è una storia simile a quella di tante altre fabbriche in Italia”.
Una dedica speciale a Dario Fo che “seguendo la tradizione dei giullari medioevali” come scrissero nella motivazione per il Nobel per la letteratura 1997, tutta la vita ha dileggiato “il potere restituendo la dignità agli oppressi”, cacciato (come lui stesso scrisse in un articolo su L’Espresso) dalla Rai per 15 anni “per aver denunciato per la prima volta nella storia della Rai gli incidenti sul lavoro che producevano vittime come fosse una guerra” (e per aver parlato, durante la trasmissione “Canzonissima”, di mafia) e autore nel 2015 del libro “Un uomo bruciato vivo”, raccontando la morte di Ion Cazacu, cosparso di benzina e arso vivo per aver chiesto di poter avere un contratto regolare (http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/492183/Vi-racconto-di-mio-padre-Ion-bruciato-vivo-E-degli-stranieri-ancora-sfruttati ), insieme alla figlia Florina. Una storia non unica nell’Italia di questi decenni. Una di quelle storie che mai finiscono in prima pagina, mai catturano i riflettori. E mai indignano abbastanza …
Alessio Di Florio