Pubblicato su "Il Manifesto" del 9 settembre 2008
C'è una qualche ragione di stupore nel fatto che alla celebrazione della difesa di Roma l'8 settembre - l'8 settembre!, nel giorno in cui quelli come lui, i nostalgici della Patria Littoria e, insieme, i ministri della difesa, dovrebbero, per decenza, chiudersi in silenziosa meditazione -, il ministro La Russa non abbia trovato di meglio che tessere l'elogio dei combattenti di Salò? Ignazio La Russa è un fascista (può sembrate anacronistico, ma è così). Era fascista trent'anni fa, quando bazzicava piazza San Babila. Ha continuato a essere fascista per tutto il tempo in cui ha ricoperto alte cariche in un partito, il Msi, che aveva nel proprio simbolo il sacello del duce e che ostentava come un onore la discendenza dalla Repubblica sociale. E' rimasto fascista nonostante la riverniciatura di Fiuggi.
E' fascista culturalmente. Politicamente. Anche antropologicamente, lasciatemelo dire, tanto da sembrare una caricatura del fascista. Lo è allo stesso modo di Alemanno, di Gasparri, di Storace...
Quello che ha detto a Porta San Paolo lo aveva già detto, in forma certamente più cruda, prima del '94, nelle sezioni del suo partito dove troneggiava di solito il testone di Mussolini e pendevano ai muri i gagliardetti della «decima mas». E lo avrà ripetuto chissà quante volte ai raduni reducistici della Divisione Littorio o della «Ettore Muti» (quelli, per intenderci, che rastrellavano con i tedeschi le nostre valli e bruciavano le borgate ribelli).
Quello che colpisce e indigna, nei fatti di ieri, è che ora lo dica non più da «uomo di partito», ma da ministro - e non un ministro qualunque -: da Ministro della Difesa, uno che rappresenta il braccio armato della nostra nazione, e che decide della vita e della morte sia dei nostri soldati che di quelli che se li trovano davanti.
Quella «lettura» della storia italiana viene dal cuore del potere governativo, dal suo nucleo più duro, e inquietante, perché preposto «all'esercizio della forza». Ma anche questo è un segno dei tempi. Della profonda trasformazione - e degenerazione - del nostro sistema politico. Del mutamento strutturale - di «regime», potremmo dire - dell'assetto istituzionale italiano.
Se il fascista La Russa può permettersi di usare, da quel podio, «istituzionalmente», un linguaggio che negli ultimi anni aveva dovuto moderare e mascherare, se può dire quello che pensava e che pensa, è perché avverte che se lo può permettere. Che si sono abbassate le difese immunitarie del paese rispetto a quella retorica e a quelle argomentazioni. Che nel senso comune prevalente, la memoria di quegli eventi è ferita, neutralizzata, in ampia misura azzerata. Sembra che, interpellato, il ministro abbia risposto di aver «detto cose molto meno impegnative di quelle che disse Violante sui ragazzi di Salò, o di quello che ha detto lo stesso Veltroni».
E purtroppo colpisce un punto dolente, perché lo strappo di Porta San Paolo avviene su un terreno già preparato da tempo.
Si insinua in un vuoto di consapevolezza e di coscienza storica lasciato da chi, per rincorrere mode mediatiche e troppo facili riconoscimenti dall'avversario politico, ha bruciato troppi ponti. Cancellato troppe linee identitarie. Giocato troppo spregiudicatamente con la propria e l'altrui storia.
I «regimi» nascono, e soprattutto si manifestano, anche così: non solo con i fatti, ma con le parole. E se dei fatti (e misfatti) di questo governo le vittime sono gli «ultimi», quelli su cui è facile maramaldeggiare (i migranti, i rom, i precari, i senza voce...), delle parole vittima sono i «primi»: i fondatori di questa Repubblica che si appanna e svanisce.
Quelli che l'8 settembre, in solitudine, nel naufragio della patria, scelsero. Un'Altra Italia, da allora non certo maggioritaria, ma autorevole, capace di voce e di memoria. Ostacolo e limite a ogni tentativo di ritorno.
E' quella la vittima sacrificale di Porta San Paolo. Il segno che, sessantacinque anni dopo, Roma è caduta. Lo misureremo nei prossimi giorni, dall'intensità della risposta, quanto profonda sia la caduta.
Ma se quelle parole dovessero «passare». Se venissero archiviate come cronaca nel gossip dominante. Se la pur dignitosa e autorevole replica del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovesse restare la sola, e non si materializzasse - di contro - una ferma, diffusa, condivisa e forte risposta, allora dovremmo concludere che il cerchio si chiude.
E l'autobiografia della nazione si ripropone, nel suo eterno ritornare.