Intervista allo scrittore triestino-sloveno Boris Pahor.
Instancabile a 97 anni Boris Pahor, scrittore triestino sloveno, ha 97 anni. La sua opera più famosa è Necropoli, (pubblicato con una memorabile prefazione di Claudio Magris), un romanzo autobiografico sulla sua prigionia a Natzweiler-Struthof che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo.
È instancabile nonostante l'età, in questi giorni è in giro per scuole a raccontare la Liberazione, il 25 aprile. Non si rifiuta mai. Per lui parlare ai giovani è fondamentale, "perché vogliono cancellare la memoria", dice.
Quando il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza (Pdl), gli ha offerto la cittadinanza onoraria, Pahor ha declinato l'invito, preferendo quello dell'associazione "Liberi e uguali". Cominciamo da qui. Perché ha rifiutato il riconoscimento del sindaco?
Mi hanno detto che il testo dell'omaggio parlava della mia sofferenza nei campi di concentramento tedeschi. Ho scritto al sindaco ringraziandolo e aggiungendo che la mia vita non è stata segnata solo dal campo di concentramento tedesco. Prima ancora c'è stata la mia gioventù, segnata drammaticamente dal fascismo. Ho perduto un mucchio di anni perché la lingua slovena era proibita e io non ce l'ho fatta a fare il passaggio dalle elementari slovene alla quinta italiana. E non perché non fossi capace da un punto di vista intellettuale, ma perché non potevo diventare italiano per forza. Il regime voleva che tutta la popolazione risultasse italiana. Hanno cambiato nomi e cognomi alla gente, facendoci sparire. Per farla breve, ho detto al sindaco: "L'avverto prima perché non voglio che lei mi dia il riconoscimento senza nominare il fascismo. Altrimenti lo rifiuterei". Tutto qui. E lui ha detto che 'a caval donato non si guarda in boccà. Se mi avessero dato un cavallo l'avrei accettato, ma non posso accettare che si dica che sono stato in un campo di concentramento tedesco tralasciando la mia gioventù che mi è stata praticamente rovinata, non l'ho avuta io la gioventù.
Perché poi, quando non è passato alla quinta italiana che cosa è successo?
Mi hanno considerato uno studente fallito e mi hanno mandato in un seminario sperando che qualcuno si prendesse cura di me. Tornando al riconoscimenti, è chiaro che il fascismo da noi è meglio lasciarlo da parte. Meglio non parlarne, no? Ma per me fascismo vuol dire la rovina della mia gioventù. Prendi la casa della cultura slovena. Adesso c'è un centro di traduttori e interpreti. Ma sulla lastra di marmo - del 1920 - non c'è scritto che sono stati i fascisti a incendiarla, bensì dei nazionalisti. La prima dittatura di destra in Europa è nata in Italia, e in più, e questo lo aggiungo io, è nata a Trieste. Mussolini ha preparato in tutte le maniere la sua ascesa al governo nel '22.
E qui il fascismo ha cercato di annientare la comunità slovena.
Certo. Hanno bruciato i nostri edifici. Hanno svaligiato le nostre biblioteche, hanno buttato i nostri libri fuori dalle biblioteche. Hanno persino fatto un grande mucchio dei libri sloveni davanti al monumento a Verdi, per dimostrare il simbolo dell'italianità, dicevano loro. Ci trattavano da ignoranti, per loro eravamo un popolo senza cultura. "Cimici" hanno scritto persino su un giornale, le cimici che hanno invaso un quartiere. Perché noi si diceva che fossimo della gente venuta da fuori per occupare Trieste italiana, invece sono balle, perché siamo qui da dodici secoli. Adesso la verità sta venendo a galla. Uno dei palazzi bruciati dal fascismo era il teatro dove si dava Ibsen, si rappresentava teatro europeo. Gli sloveni a Trieste nel '18 erano più numerosi che a Ljubljana, non eravamo mica ignoranti noialtri. Io sono nato nel ghetto a Trieste.
Ci parli ancora della sua giovinezza.
Come ho detto, è stata la mia rovina. Non è che mi abbiano tormentato fisicamente, picchiato. A scuola bisognava conoscere l'italiano per fare i compiti. E i compiti io come li scrivevo, se non avevo una preparazione? Mio papà era fotografo della gendarmeria, e durante l'epoca austriaca si è arrangiato a parlare il tedesco, ma lui era triestino, parlava in dialetto. E quindi a scuola ero un fallimento: ha dovuto pagare il maestro per farmi fare la quinta. E dopo fu un fallimento: mi fecero fare un biennio commerciale perché lui era un venditore ambulante, e ha dovuto arrangiarsi per guadagnare. Ha preso da mio nonno, suo padre, una rivendita di burro, ricotta, lievito; e ha voluto che io studiassi perché non voleva che vendessi in inverno, con la bora che va a novanta, cento chilometri. Ma il primo anno ero insufficiente, e dovetti ripetere; il secondo anno fu peggio del primo. Non era che fossi diventato stupido. Ma non potevo convincermi a scrivere di Mazzini, di Garibaldi, di tutta questa storia che era straniera per me. I ragazzi più grandi mi hanno spiegato che bisognava per forza accettare che se si voleva far parte della scuola normale, bisognava diventare italiani quel tanto che occorreva per scrivere i compiti e studiare la storia, però noialtri dovevamo conservare la nostra identità, rimanere fedeli a noi stessi. Dovevamo farlo di nascosto, illegalmente, dovevamo cercare di trovare i libri e non era facile trovare i libri perché le biblioteche erano distrutte, le librerie slovene non si trovavano. I libri dovevano arrivare da oltre frontiera, come il tabacco. Oggi abbiamo le scuole slovene qui in Friuli. Però quei venticinque anni di fascismo sono stati anni di pulizia completa. Ma questo nostro passato viene taciuto, viene insabbiato.
E dopo il seminario?
Appena uscito dal seminario dovevo andare a militare. È una balla quello che dicono che sono andato volontario in Libia. Io potevo non andare in Libia, ma non è che potevo evitare il militare. Se non disertando. Ma io volevo prendermi la laurea. Prima però dovevo rifare la maturità. Quindi ho accettato di fare il militare, a 27 anni. È vero, c'era la possibilità pagando un maresciallo, di andare in una città italiana invece che in Libia. Ma io ho preferito andare in Libia, piuttosto che continuare a stare in questa situazione, in questo paese che mi respingeva. Ovviamente ci siamo ritrovati combattenti, perché è scoppiata la guerra. Sono tornato in Italia nel gennaio del 1941. Poi mi sono proposto come interprete di serbocroato. Mi mandano al Lago di Garda. Arriva l'8 settembre e tutti scappiamo. I tedeschi fanno razzie e io vado a Trieste: c'è già la polizia tedesca. E già era cominciata la resistenza.
E lei viene arrestato...
Sono stato arrestato da collaboratori sloveni della Gestapo. Mi hanno mandato nel campo di concentramento di Dachau, poi in Alsazia e poi nel campo di cui scrivo in Necropoli, Natzweiler-Struthof. Faccio l'interprete. Nel campo erano tutti moribondi. Avevo paura che mi costringessero a parlare, a dare nomi, con il tormento dell'elettricità. A Dachau poi ho fatto l'infermiere. Ero con i morti. Prima ero con i malati, e lì si sa che quando eri in posizione orizzontale ormai non hai più speranze di uscire in piedi. Uscivi in barella per andare al forno. Siamo stati liberati il 15 aprile del 1945. Avevo una caverna nel polmone destro. Gli inglesi non si aspettavano di vedere quella marea di gente morta e morente. Quando una malattia seria ti colpiva, non avevi più fame. E quello era il momento in cui sapevi che le cose si stavano facendo gravi. Decido di andare. A piedi e in autostop da Bergen Belsen in Olanda. In quel campo mandavano tutto quello che era corpo umano distrutto, destinato a morire. Si mandava fuori per avere le camerate degli altri campi libere. Non si riceveva un colpo nella nuca, come quando si marciava, nei campi fino a quando uno non moriva doveva viaggiare, caricato e scaricato come un sacco. La differenza tra campi politici e campi dove finivano gli ebrei, era questa. Finivamo in cenere anche noi, ma finché respiravi dovevi lavorare.
Fonte: Il Manifesto del 25 aprile 2010