La crisi della politica, che sta minando il nostro tessuto democratico, investe molteplici aspetti e, sicuramente trae origine da un sistema articolato ed intrecciato di cause. Non interrogarsi su questo, andando ancora una volta a cercare le cause esterne alla propria realtà, magari amplificando l'accusa di antipolitica, rischia di essere ancor di più deflagrante e di minare seriamente quelle fondamenta della nostra democrazia, di cui i partiti sono “una” colonna fondamentale, ma non l'unica.
In questo contesto vorrei porre l'accento sulla sfiducia dei cittadini, che non è solo sfiducia nei partiti e nelle forme con cui si concretizza l'azione politica, ma sfiducia nella capacità dell'azione politica di essere un elemento della trasformazione della società.
Quest'ultimo aspetto, per altro connesso al primo, può diventare davvero devastante per la tenuta del sistema democratico del paese, lasciando aperte le porte, in un clima di manifesta assuefazione e rassegnazione, alle oligarchie e ai poteri forti, esperienza che ci ha travolto in questo ultimo ventennio.
Ripensare i partiti non significa “crearne di nuovi”, bensì si tratta di ripensare il sistema dell'azione politica, il ruolo ed il meccanismo con il quale questa si attua, in coerenza con l'orizzonte verso il quale si vuole procedere.
Abbiamo sperimentato in questi anni troppo “nuovismo” di facciata e puramente nominale, a fronte di una incapacità a sperimentare un agire politico diverso, che davvero segnasse quella novità culturale nella politica.
In tal senso il dibattito su il “Alba”, il Soggetto politico nuovo, ha posto con forza questi elementi, anche se ovviamente deve andare ad esplicitare meglio l'orizzonte verso il quale intende procedere, l'idea di paese e di sviluppo che soggiace a questa nuova riflessione sull'agire politico, così come le esperienze recenti del “Forum dei movimenti per l'acqua” e del movimento “Se non ora quando”, ci hanno indicato un modo di relazioni politiche capaci di essere elemento di trasformazione e rottura con una certa pratica.
Ripensare le forme dell'azione politica significa riuscire ad esplicitare in maniera chiara gli interessi che sono rappresentati, la strada verso la quale si procede e la cultura politica che soggiace al senso di appartenenza, assicurando, tuttavia, che la pratica politica sia coerente con il sistema di valori di riferimento facilmente identificabile, anche quando si è chiamati alle mediazioni inevitabili: saldando, come il movimento nonviolento insegna, tra loro azione e ideali.
Se le forme organizzate non vogliono essere travolte da questa sfiducia, oltre le “normali” scelte di etica e trasparenza politica, è necessario, a mio modesto avviso, innanzi tutto assumere come valore il senso del limite di ogni espressione organizzata e partecipativa, incluse quelle dei partiti.
Il senso del limite come parzialità e, per questo, ricchezza, pur nella generalità dello sguardo, della prospettiva con cui si guarda la realtà e si delineano le strade da percorrere, a partire dai partiti, per passare al momento amministrativo e, in generale, al livello partecipativo di movimenti e associazioni.
Solo la consapevolezza del proprio limite può liberare la cultura dell'ascolto, della necessità di aprirsi alla prospettiva dell'altro (sia esso soggetto collettivo o persona), con lo spirito di chi fa questo per modificarsi, per arricchirsi... per allargare il proprio orizzonte, per lasciarsi contagiare, almeno parzialmente.
Solo in tale ottica, all'interno di una cultura politica diversa, fondata sul “bisogno” di lasciarsi contagiare, acquistano senso e significato i processi partecipativi, che non non possono essere puramente relegati ad espressione di tecnica della partecipazione (anche se non devono essere trascurati gli strumenti usati ed i facilitatori), ma diventano essi stessi elemento essenziale della vita politica e amministrativa, colonne della nostra democrazia e della trasformazione, postulati dell'azione politica.
Una politica invece che si crede completamente autosufficiente, rischia di essere una politica autoreferente e capace, al massimo, di avviare percorsi formali di partecipazione, ma non luoghi sostanziali, capaci di essere elemento di trasformazione. E' questa la politica che avvia magari esperienze di partecipazione relegandole ad una nicchia della vita amministrativa, ma poi ignora la pratica dell'ascolto e del contagio laddove si devono fare le scelte forti nell'urbanistica, nelle politiche culturali, o in quelle sociali.
In tale ottica credo che si collochino le primarie. Le affermazioni assolute che esse rappresentano uno degli elementi più alti della partecipazione democratica, rischiano di essere semplicemente un'operazione di facciata, se queste non si inseriscono in un profondo cambiamento della cultura politica che avverta la necessità di cogliere “l'elemento fondante” delle pratiche partecipative e di ascolto delle esperienze che crescono nella società, a tutti i livelli e in tutti i momenti della vita politica, non solo quando devono essere scelti i leader.
Quando mi riferisco alle esperienze partecipative non vi colloco semplicemente quelle in qualche modo istituzionalizzate (primarie, percorsi di bilancio partecipato...), ma tutti i luoghi che permettono una partecipazione dei cittadini, siano essi i forum, le reti, l'associazionismo, le esperienze di volontariato sociale e culturale, i sindacati, i partiti...
E' ben evidente, tuttavia, che la percezione del limite e le pratiche di ascolto e di contaminazione reciproca tra politica e movimenti non è per nulla neutrale. Così come la politica non può essere neutrale, ma deve rappresentare interessi precisi ed indicare un percorso di cambiamento in direzioni precise, così anche i movimenti e i luoghi della partecipazione rappresentano spazi non neutrali, ma proprio per questo possono offrire elementi di arricchimento della prospettiva con cui si osserva il sistema sociale.
Il nodo della questione è che in questo ultimo ventennio una cultura anestetizzante ci ha attraversato tutti ed abbiamo, di fatto, fatto piazza pulita di ogni forma di partecipazione e di aggregazione, arrivando al punto di demonizzare quelle che a fatica cercavano di svilupparsi (social forum, movimento per la pace, movimento contro la globalizzazione, movimento per i beni comuni....).
Il punto è passare dalla demonizzazione ad interrogarsi sulle istanze di cui sono portatori e se queste, in qualche modo, possono diventare-integrare un progetto e un percorso politico.
Una politica arroccata su se stessa è, di fatto, una politica che crea un sistema sociale chiuso in se stesso, incapace di contagiarsi, di aprirsi... destinandosi così ad una morte asfittica, nella quale trascinare tutto il sistema sociale.
Abbia bisogno di aria, di idee... e anche di ideologie, che ci dicano quali pensieri di sistema sociale sono in campo e le strade da percorrere andando verso quell'orizzonte. Il rischio reale che tutte le forze politiche ci propongano lo stesso modello di società, teorizzato dalla BCE e dal potere finanziario.
In tale prospettiva è ben evidente come non vi possa essere contagio, ma solo ribellione o rassegnazione.
Per questo è necessario un impegno forte di tutti i soggetti, nella consapevolezza che una cultura partecipativa non è una scorciatoia, bensì la scelta di un sentiero, sicuramente affascinante, ma faticoso, impegnativo... perché comporta, da un lato, la crescita di consapevolezza e di percezione della complessità e, dall'altro, la rinuncia a pezzi di potere e di rendita che ormai hanno reso asfittici certi luoghi.
Consapevolezza del limite, della complessità, della fatica, del bisogno di ascolto, della necessità per la tutela democratica di ripristinare fiducia nei momenti partecipativi... ma anche percezione della sfida alta che possiamo raccogliere sono elementi importanti del rinnovamento della politica e della società civile.
Non esiste una parte buona e una cattiva della società politica e civile, esistono i valori e frammenti di verità che è necessario scoprire percorrendo pezzi di strada insieme, riconoscendo reciprocamente il proprio ruolo, il proprio limite, la propria parzialità, sapendo che solo interagendo nella chiarezza è possibile una reale trasformazione.
E' una sfida reale che parte dalle scelte quotidiane dell'amministrazione, della politica e dell'agire dentro la società... ma non può essere una scelta limitata a qualche settore, è una scelta complessiva, per questo culturale, verso l'apertura e non la chiusura, che investe tutti: i partiti, i movimenti, le nuove forme organizzate, che davvero devono interrogarsi sulla loro capacità di essere espressione di partecipazione democratica “a tutti” i livelli, riflettendo senza remore sulla capacità di ciascun soggetto a mettersi in un'ottica sinergica di rete e ad essere pienamente luogo di espressione e partecipazione democratica (superando le vocazioni leaderistiche di alcuni movimenti e partiti).
In quest'ottica la non demonizzazione significa non tanto cercare la pagliuzza nell'occhio dell'altro, ma osservare la propria trave e trasformarla in un momento di cambiamento profondo e in una logica partecipativa a tutti i livelli.
So bene che le attuali forme organizzate non sono pronte, o per ragioni statutarie, o per cultura diffusa e necessità di salvaguardare i propri centri di potere, ma credo davvero che se non si vuole sprofondare in una crisi politica devastante sia necessario un cambiamento e la proposizione di modelli organizzativi “altri”, che indichino veramente un passo in avanti, non semplicemente di facciata o di nome, ma nella pratica quotidiana dell'agire politico.
Per far questo è necessario anche rinnovare la classe dirigente dei partiti, ma non, come molti dicono, puramente in una logica anagrafica, bensì partendo dai contenuti e dalla cultura dell'agire politico che deve rappresentare.
Si tratta di valorizzare gli spazi di partecipazione che sorgono, facilitandone la creazione di nuovi, riconoscendo loro, tuttavia, il fatto di essere un elemento della trasformazione.
Ma è necessario fare di questa prassi la cornice e lo sfondo dove si declina tutta l'azione politica e amministrativa.
La crisi di partecipazione va oltre la crisi dei partiti, di cui forse ne è anche la causa. E' qualcosa che investe quel brodo culturale di questo ultimo ventennio che ha attraversato tutti i settori della nostra società: l'esaltazione dell'individualismo, la perdita del senso collettivo e della percezione dell'importanza dei beni comuni, che ha portato progressivamente a teorizzare il concetto di privatizzazione dei servizi come elemento di sviluppo, riducendo il bene comune a merce.
Con questo brodo culturale dobbiamo fare i conti, perché ne siamo immersi, recuperando una cultura politica altra fatta di senso e sapere collettivo, di beni comuni, di solidarietà, declinando in maniera diversificata e poco strutturata gli spazi di partecipazione dove si può esprimere il protagonismo sociale, avendo chiaro che in questo processo la politica deve recuperare credibilità e un assumere un significato e un significante che sia concretamente decifrabile r individuabile.
Solo se le forze politiche, facendo un passo indietro e ponendosi nella logica di servizio, saranno capaci di svolgere questo compito, assumendo la propria parzialità, sarà possibile, rafforzando tutte le “colonne” che sono alla base del nostro sistema democratico, una nuova stagione della vita politica e sociale, prospettiva che diventa ancor più necessaria nel contesto della crisi economica e sociale che viviamo, nella quale sempre più marcato è l'aumento delle situazioni di povertà e della forbice di disuguaglianza sociale e di potere.
Gino Buratti
Massa, 1 maggio 2012