Le vicende della politica italiana assumono spesso aspetti contraddittori, talvolta ambigui, che, in qualche modo, certo non aiutano a superare quel senso di disagio e rifiuto che avvolge il mondo dei politici.
Dinanzi alla crisi in cui versa il sistema dei partiti, un tema ricorrente, quasi un “mantra”, è quello dell'insistere sulla “partecipazione”, come se questa fosse il toccasana della crisi, facendo si che ciascuno si attribuisca il patentino di migliore facilitatore della partecipazione, chi praticando le consultazioni nella rete, chi proponendo il sistema delle primarie, chi stampandosi in fronte il numero di consensi ottenuti, come lasciapassare per ogni scelta.
Il proporre il tema della partecipazione, senza tuttavia specificarne l'obiettivo e lo scopo, usando questo termine in maniera astratta, senza inserirlo in una cornice, di fatto svuota questa parola di un preciso e concreto significato e sterilizza uno strumento che potrebbe invece rafforzare quel senso di comunità e di appartenenza che manca nella nostra vita politica.
E' un male questo tipico di questa nostra politica, così avvezza a cercare le scorciatoie facili, gli slogan immediati, sottraendosi, invece, a quella sfida alta che la complessità e la drammaticità di questa crisi imporrebbero.
I modelli partecipativi, sviluppati oltre quello previsto della scelta dei propri rappresentanti alle elezioni, possono essere uno elemento di amplificazione delle pratiche di democrazia e di rafforzamento di quella cittadinanza attiva, che pur è prevista anche dalla Costituzione.
Scegliere l'orizzonte di ampliare la sfera della partecipazione, ben oltre il semplice momento elettorale, non è una strada obbligata, è una scelta che la politica assume, accettandone però tutte le sfide e i rischi che ciò comporta.
Non è però, a mio modesto avviso, semplicemente uno strumento per misurare e/o cercare consenso rispetto ad una propria posizione, è la capacità, ancor prima culturale che metodologica, di assumere come elemento centrale e vitale la propria “parzialità”, il proprio “limite”, sia come soggetto organizzato che come singola persona, nella lettura del sistema e nel cercarne soluzioni.
Da questa parzialità nasce il bisogno di avviare percorsi partecipativi, nell'ottica di leggere le problematiche da diverse prospettive e, al tempo stesso, cogliere elementi nella visione dell'altro, nella consapevolezza della necessità di dover “ampliare” il punto di osservazione e di individuare anche risorse ed energie che altrove si trovano, cogliendo il valore aggiunto che esse rappresentano rispetto ad un processo di trasformazione.
In tale ottica, l'orizzonte partecipativo è proprio all'antitesi di quella arroganza culturale, che diventa spesso violenza (verbale), così frequente nella nostra vita politica, che comporta la presunzione di essere gli unici detentori di una verità e gli unici interpreti del cambiamento.
Ma l'orizzonte partecipativo è anche all'antitesi di quel “bisogno di leader forte”, che ormai ha contagiato tutte le forze politiche.
Processo questo che ha avuto i suoi primi barlumi con il decisionismo di Craxi, che poi è proseguito a destra con “il culto” di Berlusconi, ma che ha contagiato centro-sinistra e sinistra nella ricerca di leader carismatici (penso ad esempio all'esperienza della lista Ingroia), alla presentazione di continue liste centrate sul nome, senza soffermarsi minimamente sui programmi.
Non ultimo il delinearsi del M5S, nato per sperimentare pratiche nuove, ma tutto centrato su la figura di due leader carismatici-gurù, e l'avvento di Renzi, paladino delle primarie e della partecipazione, che di fatto però si presenta con il tono arrogante di chi ha la verità in tasca.
Ma questa cultura “accentratrice” si è incarnata anche nei modelli di governo dei territori, con la proposizione delle figure dei “governatori” delle regioni e dai sindaci forti, consegnando ad una figura, e non ad un progetto politico culturale, la rappresentatività della trasformazione e del governo. Tutto ciò, se pur legittimamente, è una contraddizione stridente con percorsi partecipativi reali, che non siano semplici processi di consultazione e/o conferma del consenso.
Troppo spesso assistiamo a figure, siano essi leader di partito/movimento o amministratori locali, che hanno costruito il proprio ruolo di novità proprio partendo dall'esaltazione dei luoghi della partecipazione, per poi, procedere invece a governare, amministrare, gestire un partito proprio negando quegli stessi presupposti, o camuffandoli.
Accettare poi un orizzonte partecipativo, inoltre, significa assumere la consapevolezza che i tempi della decisione non sono quelli delle telematica, perché comporta capacità di ascolto, di confronto duro e consapevolezza di arrivare ad una sintesi, nella quale non vi sono semplicemente vinti e sconfitti, ma soggetti che hanno ottenuto qualcosa, magari rinunciando ad altro.
Significa declinare l'esperienza partecipativa nell'analisi e nella programmazione delle politiche di un territorio e di un paese, non semplicemente come momento di verifica del proprio consenso.
Significa saper procedere su un terreno non facile, ricco di insidie, sperimentando le poche certezze e i tanti dubbi, nella convinzione che solo una pratica reale che veda i soggetti (singoli e organizzati) protagonisti di un percorso può, non aumentare un consenso, ma costruire un processo condiviso, arricchito da punti di vista plurali.
In tale ambito diventa estremamente ambigua la riproposizione degli slogan sulla partecipazione proposti dai nostri leader: in nessuno c'è il bisogno di confronto ed ascolto delle altrui prospettive, c'è semplicemente il bisogno (con scelte ed espressioni lessicali) di affermare il proprio pensiero distruggendo, di fatto, le diversità, negando, nelle pratiche, l'assunzione della parzialità, del limite e del dubbio come compagni di viaggio nella costruzione di un percorso politico di cambiamento, non semplicemente amministrativo.
Lo stesso strumento delle primarie, per altro interessante per certi punti di vista, non può essere pensato come l'unico modello partecipativo, è un modello, che assume un senso se esso va ben oltre la semplice individuazione di un leader e di una linea, una volta ogni tanto, diventa strumento interessante se capace di essere declinato non come momento occasionale, ma come pratica politica.
Se da un lato un problema forte è in “l'idea di democrazia” dentro ai partiti/movimenti, quali contenuti e strumenti dargli per renderla reale, dall'altro è evidente il rischio di chi, utilizza parole fondamentali quali la partecipazione, semplicemente per ornare le proprie pratiche di gestione del potere semplice ricerca di consenso e affermazione del proprio pensiero.
Tutto legittimo nell'agorà della democrazia, ma quanto meno si eviti di tingere certe pratiche politiche – ad esempio i guru sui blog, l'esaltazione del modello delle primarie come unica pratica di democrazia, il proporsi come leader salvifico e unico interprete del cambiamento e della novità, l'atteggiamento populistico che inonda tutti i leader dei maggiori partiti (M5S, PD e Forza Italia) - con il velo della partecipazione, perché non solo facciamo danni politici irreparabili, ma diventiamo soggetti mistificatori e corresponsabili dell'incoerenza e del discredito che la politica ha assunto, con grave pericolo e danno per la democrazia, a causa dell'affermarsi di movimenti e forze destabilizzanti.