Anche questo aprile la destra ha ripetuto la sua vulgata, il giudizio negativo sui partigiani, la resistenza e l’antifascismo. Le uscite polemiche e strumentali di alcuni politici, come quella di abolire il 25 aprile, non preoccupano per i contenuti perché rivelano scopertamente un fine demagogico ed elettorale, ma preoccupa di più la tendenza fascistoide che penetra tra i giovani, anche tra i non militanti di associazioni o partiti di destra. Tale tendenza si fonda su argomentazioni che sono trite parole d’ordine che l’antifascismo affronta e subisce da decine di anni, e che purtroppo sembrano quasi impossibili da superare, perché si ripetono e ripresentano indefessamente, senza possibilità di confronto. Di fronte ad esse comunque mi ostino a offrire una ennesima riflessione pubblica, che vuol essere la più oggettiva possibile e che non vuol certo essere supponente, ma aperta
Prima di tutto credo sia molto utile ricordare questa frase di Italo Calvino, un autore nazionale, apprezzato anche a destra tanto è universale, un po’ come Pasolini.
“Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista,
c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono.”
La frase è significativa perché dimostra che c’è sempre stata coscienza di errori anche da parte partigiana, e che bisogna saper distinguere tra livello individuale e livello politico. Una persona rappresenta un qualcosa a entrambi i livelli ed il valore dei due aspetti può anche essere in contraddizione, niente lo vieta. Ma il giudizio storico ha il compito precipuo di inquadrare la valutazione in uno spettro più ampio di ragioni. In questo senso la condanna del giovane militare fascista, i famosi ragazzi di Salò, è oggettivamente inconfutabile, si trattò infatti di un esercito mercenario, al soldo di un esercito straniero occupante il paese, e utilizzato soprattutto in azioni contro la popolazione ai fini della lotta partigiana, la qual cosa provocò anche la cosiddetta guerra civile. Preciso che la qualifica “mercenario” non è metaforica, ma è usata in senso letterale a significare che il soldato repubblichino che consegnava ai tedeschi un disertore rastrellato riceveva un compenso in denaro. Poi che a livello individuale ci sia stato un giovane fascista più buono di un giovane partigiano di nuovo nessuno lo vieta di pensare.
La letteratura è più incisiva del saggio storico nello spiegare, o meglio nel far capire, le cose, perché permette di far emergere direttamente quello che si vuole dire, non di dimostrarlo. In tal senso è utile un piccolo rinvio letterario, l’invito alla lettura di “Una questione privata”, di Beppe Fenoglio, uno dei migliori libri sulla nostra Resistenza.
Comunque c’è sempre anche il fare storia ad aiutarci, ne cito un buon esempio. In primavera è ritornata fuori, come ogni anno, l’accusa della destra sulla negatività dell’attentato di via Rasella a Roma da parte dei partigiani, dimenticando e trascurando il dato che la guerriglia era necessariamente l’unico tipo di guerra consentito alle forze resistenti, e che era espressamente indicato e sostenuto dagli stessi alleati, che chiedevano di fare agguati, attentati e di attaccare il nemico alle spalle. L’accusa ai partigiani di non essersi presentati fa capire che non è purtroppo conosciuto un libro basilare sulla vicenda: Alessandro Portelli, “L’ordine è già stato eseguito”, che ha dimostrato, attraverso una memoria corale della gente di Roma, come i tedeschi risposero immediatamente con la rappresaglia e con la strage delle Fosse Ardeatine, prima di cercare responsabili. L’ordine di presentarsi agli attentatori non è mai esistito!
Esiste poi una riflessione storica che comporta un giudizio politico. Per esempio Enzo Collotti, la cui autorità è indiscussa e si esplica in ragionamenti molto semplici, ha parlato del “fascismo quotidiano dei nostri giorni”, ritenendolo anche forse più pericoloso di quello del ventennio istituzionalizzato nello stato. Proprio in ragione di ciò ha detto che “il 25 aprile deve essere una riflessione permanente”, che comporta indubbiamente atteggiamenti conseguenti, capaci di affrontare i fatti e gli argomenti nel loro sviluppo. Per tale metodo il richiamo al 25 aprile non potrà mai essere espressione di un legame ideologico.
Su questa questione di sostanza mi piace citare anche Franco Cordero, un giurista riconosciuto, che ha spiegato come:
“Fascismo e Resistenza non rappresentano solo due momenti storici, ma costituiscono due ‘antropologie’ radicalmente agli antipodi, divise da un’alterità incolmabile. Purtroppo, però, mentre l’antropologia fascista sembra parte integrante del corredo ‘genetico’ degli italiani, lo ‘spirito della Resistenza’ - che impone capacità critica, libertà di pensiero, autonomia - è stato un’anomalia per il nostro paese. Che non a caso, infatti, l’ha sostanzialmente lasciato cadere nell’oblio. Pensare, nel fascismo, era un vizio, come pericoloso era l’abito morale che implica dubbi, dissensi, scelte divergenti. La legge 19 gennaio 1939, n. 129 abolì la Camera dei Deputati e la sostituì con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni nella quale i voti erano sempre palesi e i componenti erano scelti per le cariche ricoperte nel PNF o nelle Corporazioni”.
Ma per questo aspetto non posso non ricordare il partigiano di Carrara Lino Rovetti (Linè), assieme a lui anni fa tenni una conferenza ai giovani delle superiori in Palazzo Ducale a Massa. Lino fu affascinante, ad un certo punto tirò fuori il portafoglio, e da questo un pezzetto sgualcito e ingiallito di un foglio di un vecchio quaderno a quadretti, e spiegò: “Nell’estate del 1944 formammo una squadra e dopo un po’ emerse la necessità di nominare tra noi un responsabile. Eravamo sui monti nei boschi, un amico strappò dei fogli da un quaderno e ne diede un rettangolino a tutti proponendo di scriverci il nome di chi dovesse essere il responsabile, e di farlo ognuno per conto proprio, dietro un castagno. Io scrissi il Memo, che divenne il nostro capo. Quel fogliettino da quel giorno l’ho sempre tenuto con me, rappresenta il senso della mia libertà, era la prima volta nella mia vita che sceglievo qualcosa, che contavo come gli altri, che votavo!”
Una lezione indimenticabile!
Oltre alla violenza della guerra che è oggettiva perché non esiste una guerra giusta, se non appunto e forse, come affermava Don Milani, quella partigiana, quella cioè di chi si ribella, chi si rivolta contro una violenza maggiore e insopportabile che rende l’uomo schiavo, rimane anche la questione della violenza nei dopoguerra, che è tema che non voglio sfuggire, in modo che la riflessione non abbia lacune e sia la più completa possibile secondo le mie capacità.
Ebbene io sono molto legato ad una frase del musicologo Massimo Mila che fu partigiano di Giustizia e Libertà nel Canavese e che nella relazione finale sull’attività, che fu una specie di commiato da parte del comando ai partigiani della terza zona, scrisse, in data 13 maggio 1945: >La grande avventura volge al termine, la poesia della nostra giovinezza è finita. Ora comincia l’opera del lavoro virile, nei campi, nelle officine, negli uffici, dove necessariamente ci troveremo a fianco di uomini i quali non hanno nel loro passato questa forma di gloria che è la guerra partigiana. Non importa: noi non saremo superbi, non accamperemo pretese e rivendicazioni, in una parola non saremo “squadristi” e “marcia su Roma”< . Lo si trova citato in: Bruno Rolando, La Resistenza di Giustizia e Libertà nel Canavese, a cura di Gino Viano, Enrico Editore, Ivrea/Aosta, 1981. Ma anche su questo argomento ho un ricordo più particolare di altrettanta valenza che viene dai miei studi e del quale sono innamorato. Nello stesso periodo, maggio 1945, il CLN Apuano affrontava la questione di un giovane partigiano in una frazione della montagna carrarina che esprimeva pubblicamente, armi in mano, la volontà di farsi giustizia da sé. Il CLN scrisse quindi al capo della formazione: “Conosciamo bene il tuo giovane, capiamo anche il suo desiderio di vendetta, sappiamo che la sua intera famiglia in quanto antifascista ha subito per vent’anni dal regime vessazioni e violenze di ogni genere. Ma non può far da sé, devi fermarlo! Devi fargli capire che noi non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo essere come loro!”. Non so se il capo ci riuscì, sicuramente sì, se era un capo che anche quel giovane aveva scelto e che quindi rispettava. Come esperienza personale (non certo riferita alla Resistenza) posso solo aggiungere che qualsiasi tipo di violenza che si commette nella vita, anche leggera e non certo motivata come quelle di un tale periodo, alla fine ti ritorna fuori nella coscienza non facendoti mai stare bene del tutto. Meglio, quindi, se si può, evitare.
Infine per concludere, è certo veramente importante intenderci bene su cosa sia l’antifascismo, perché molti lo interpretano come una posizione di parte politica, mentre è un principio che sta alla base della politica, e quindi dovrebbe abitare nelle coscienze di tutti. Nella sostanza, infatti, l’antifascismo è né più né meno che la “possibilità di scelta”, che è garantita dalla Costituzione che parla di “legittimità delle differenze”. Ma anche la Costituzione purtroppo oggi è dileggiata, senza essere mai stata compiutamente applicata.
Se solo si accettasse questa semplice verità si capirebbe tutti davvero come sia sbagliato contrapporre antifascismo e democrazia. Non può esserlo, l’uno sostanzia l’altra, ne è la base.
Speriamo che in Italia si arrivi a capirlo tutti, ma i segnali non sono buoni.
Massimo Michelucci - Vice Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza Apuana