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Carissimi,
per la prima volta non vi scrivo per segnalarvi un'iniziativa o un dibattito.
Vi scrivo, in questa notte, con l'amarezza nel cuore, la rabbia, lo sgomento.
Lo sgomento di vivere in una città che è riuscita ad offrirci il peggio.

Come saprete la notte dello scorso venerdì Emanuele, un giovane di 27 anni, è stato inseguito, fermato, pestato, bastonato ed accoltellato da un gruppo di personaggi che da troppo tempo opprimono impunentemente la nostra città con slogan, gesti, simboli, atteggimaneti e violenza senza alcun freno e di stampo nazi-fascista.
Quello stesso giorno, venerdì, alle 3 del pomeriggio, si svolgeva il processo che vede imputati alcuni di questi personaggi per aver aggredito e malmenato Edoardo, nell'estate scorsa.
Erano in molti, fuori da quell'aula, che hanno avuto il coraggio di portare la loro "solidarietà" a quelle "persone" che nel processo sono imputate per l'aggressione ad Edo. Dobbiamo fargli capire, con urgenza, che non sono sgraditi in una città che crede nei valori del'antifascismo.

Occorre che ognuno di noi si ribelli, trasformi l'indispensabile rabbia di fronte a questi gesti in azioni volte alla crescita di una cultura democratica, antifascista (come la nostra costituzione), dei diritti e della solidarietà.

Occorre che stiamo accanto a Emanuele come lo siamo stati e continuiamo ad esserlo ad Edoardo, a tutti i giovani che hanno ricevuto intimidazioni e minacce e a chi le riceverà nei prossimi mesi.

Ma dobbiamo fare anche tutto il possibile per cacciare questa cultura dell'odio. Per far crescere una cultura ed una sensibilità diffusa e condivisa di totale e forte ostilità a queste organizzazioni di stampo chiaramente ed esplicitamente fascista.

Occorre che ci mobilitiamo perchè non ci sia paura a vivere nella città ma anzi ci sia gioia di farlo nel modo più impegnato e democratico possibile, contro chi vorrebbe seminare volenza, rispondiamo con la giustizia e la cultura antifascista.

Sotto un appello diffuso proprio pochi giorni prima dell'agguato da tanti genitori che non ne possono più di questo clima in città. Al termine dell'appelo è stato raccolto un registro con molti degli avvenimenti che caretterizzano l'azione criminosa di questi personaggi. Di seguito trovate infine alcuni articoli apparsi sulla stampa locale.

(segue appello)

Pubblichiamo questo contributo di Marco Revelli, tratto da “Il Manifesto” del 6 marzo 2007, per aprire un dibattito sul tema cruciale della democrazia e della coerenza tra azione politica e valori annunciati, del rapporto tra movimenti e forze politiche.
E’ un tema importante, che ci investe anche come movimenti, laddove spesso talvolta siamo propensi a modulare al nostro interno le contraddizioni che emergono dentro alle forze politiche (penso alle dichiarazioni di Casarini sul decidere chi è collaborazionista o no e su chi può stare dentro ai movimenti e alle piazze).
Un tema attuale che riguarda come il solo enunciato di pace e di nonviolenza si traduca poi in un disagio nelle scelte di governo... così come le scelte di nonviolenza si scontrano palesemente con la criminalizzazione e l’emarginazione di un pensiero altro (dissenso).
Fatti ed esperienze quotidiane, sulle quali non possiamo semplicemente passare un velo pietoso, ma che devono interrogarci su come, realmente, sia possibile sperimentare una politica altra, capace di coniugare disponibilità all’ascolto, riconoscimento dell’altro e governo...
Saremo felici di ospitare su questo notiziario e nel nostro sito i contributi di quanti vogliano condividere i loro pensieri su questo tema.





l'analisi

Sinistra, l'abisso tra movimenti e rappresentanza politica


di Marco Revelli

Pubblicato su “Il Manifesto” del 6 marzo 2007

«Il governo Prodi non è più in pericolo, ma sarebbe un grave errore continuare come se nulla fosse accaduto» «Bisogna riconoscere che tra governanti e movimenti c'è ormai un'incomunicabilità di logiche e di contenuti»


L'abbiamo tirato tutti, come negarlo?, un sospiro di sollievo quando al Senato, si è raggiunto il centosessantaduesimo voto. E Prodi si è risollevato. E Berlusconi si è afflosciato. E l'incubo di un passato che non trapassa si è dissolto. Bisognerebbe essere masochisti per non condividere queste emozioni. E tuttavia... E tuttavia succedono cose che fanno riflettere. E che sarebbe ingiusto non dichiarare, per lo meno come questione da discutere.
Succede, per esempio, che si discuta per anni di nonviolenza (senza se e senza ma) e di pace come valore non negoziabile, con tutti che plaudono compiaciuti e si congratulano tra loro per i buoni sentimenti condivisi, e poi alla prima occasione, al primo stormir di governo, eccoli tutti là, allineati e coperti (tranne un paio), a votare i crediti di guerra. A regalare qualche milione di metri quadri del nostro territorio per una base militare che persino il senatore Andreotti dice inutile, e incomprensibile. Ad approvare un riarmo che porta il bilancio della difesa a livelli record, e un investimento in cacciabombardieri nucleari di 13 miliardi di Euro, simboli evidenti della nonviolenza volata nell'alto dei cieli...

Tratto da Notizie minime della nonviolenza, n. 61 di lunedì 16 aprile 2007


- "Una città": Nel Primo Uomo, il romanzo rimasto incompiuto (il cui manoscritto Camus aveva con sè al momento dell'incidente mortale) l'Algeria, fino a quel momento assente o quasi nei suoi romanzi, diventa protagonista assoluta...
- Olivier Todd: In effetti, per parlare di Camus e dell'Algeria dobbiamo cominciare dalla fine, da Il Primo Uomo, che esprime al contempo la sua speranza e la sua disperazione per la guerra in corso in Algeria. Tema del libro è la vita dei petits blancs, i francesi poveri d'Algeria, che nessun intellettuale, a differenza di Camus, conosceva realmente o prendeva in considerazione.
Lui era uno di loro, essendo nato in una famiglia povera: la madre, vedova di guerra, arrotondava la magra pensione facendo la domestica. Quando scrive che in casa il burro e lo zucchero si compravano a etti, questa povertà mi pare del tutto evidente. Quindi, sapeva chi erano i petits blancs. In un editoriale dell'"Express", scritto per spiegare i petits blancs d'Algeria ai petits blancs, ai grands blancs, ai moyens blancs di Francia, sostenne: "I francesi d'Algeria non sono tutti ricchi, col sigaro in bocca, sempre a bordo di una Cadillac".
Una scena del libro mi pare molto eloquente perché evidenzia il punto di vista di Camus sugli eventi d'Algeria. A un certo punto, il protagonista, cioè Camus stesso, va a trovare un vecchio colono, che gli dice: "Lei sa com'è in Algeria: un giorno ci si sbrana e il giorno dopo ci si riconcilia". Mentre scrive Il Primo Uomo a Lourmarin, in Provenza, Camus ritiene che tutto sia ormai finito, che sua madre sarà costretta a rientrare in Francia perché sarà l'opzione indipendentista a prevalere.
Non sarà quindi possibile quell'unione tra l'Algeria e la Francia all'interno di un organismo più vasto che lui, utopisticamente, auspicava.
Cosa avrebbe voluto Camus? Che si trovasse un modus vivendi che permettesse ai pieds-noirs di restare in Algeria. Sognava un sistema egualitario, fraterno, che si sarebbe forse potuto realizzare prima della guerra.
Probabilmente, la sua era una chimera, ma, a pensarci bene, è la stessa cosa che tutti noi oggi auspichiamo per il Sudafrica: la nascita di uno stato multirazziale e multietnico, in cui persone di origine europea e africana possano vivere gli uni accanto agli altri.
Comunque, la storia dei rapporti fra Camus e l'Algeria è più complicata.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che fu iscritto al partito comunista algerino dal '35 al '37, e ne venne espulso per anticolonialismo. Seguendo gli ordini di Parigi, che obbediva a Mosca, il partito algerino aveva messo la sordina alla lotta anticoloniale, che invece Camus rilanciava dalle colonne di "Alger Republicain" e di "Soir Republicain", i due giornali in cui esordì come reporter. Camus aveva preso coscienza della disuguaglianza prodotta dal sistema coloniale. In un reportage dalla Cabilia, molto bello, scriveva che i berberi vivevano in condizioni di semischiavitù. Questa è una cosa molto importante. Si dimentica che aveva difeso i militanti nazionalisti algerini, fra cui alcuni sceicchi un pò corrotti. Si dimentica che aveva appoggiato il progetto Blum-Viollette nel '36, con cui il governo del Fronte popolare voleva estendere i diritti politici all'elite musulmana.

Pubblicato su "Il Manifesto" del 15 giugno 2007
Il senso di appartenenza a un corpo di stato e la carità di patria sono due brutte bestie, non estranee a quello che Hannah Arendt definì, a proposito dei gerarchi nazisti, «banalità del male». Fa parte invece dell'imprevedibilità del bene il fatto che Michelangelo Fournier abbia tradito l'una e l'altra per amore di verità, ribadendo in aula, al processo sui fatti di Genova 2001, quello che già aveva detto nel suo primo interrogatorio. «Macelleria messicana», ecco cosa fu, parola del vicequestore, l'agguato alla scuola Diaz. «Metodi cileni», commentò all'epoca Massimo D'Alema, accompagnato da pochissimi e meritori esponenti diessini ma nel silenzio tombale del grosso dell'Ulivo. Absit iniuria verbis: sarà facile, per i post-colonial latinoamericani di oggi, definire d'ora in poi «metodi italiani» eventuali efferatezze in casa loro. E del resto, dopo il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto, fu per primo il presidente del Senegal a dirsi esterrefatto che lo stato di diritto fosse in Italia meno solido che in casa sua.

[Riproponiamo il seguente testo di, apparso originariamente in "Dimensioni", n. 56-57, dicembre 1990, e disponibile nel sito www.aldocapitini.it]


… non può esservi incongruenza fra i mezzi e i fini dell'azione volta al rinnovamento, poiché l'uso di mezzi incompatibili finisce per modificare e stravolgere i fini; la violenza, la coercizione, la dittatura, non sono mezzi per il raggiungimento della libertà. "Dobbiamo pur vivere queste poche ore o pochi anni, esplicare al massimo la nostra fede e i nostri compiti, e se, invece, diciamo a noi stessi: lasciate che venga un'ondata di materialismo, di dittatura, di economicismo di massa, lasciate che trionfi il regno della necessità, così dovrà essere per decenni e forse per secoli; poi verrà il regno della libertà; questo ragionamento non può essere accettato da chi vede nella produzione e nella affermazione del valore spirituale il centro della realtà" (10).
Il fondamento filosofico della critica capitiniana del totalitarismo fascista, che subordina la persona allo stato, e di quello sovietico, che stravolge il rapporto fra mezzi e fini, può essere individuato in "un certo moralismo kantianeggiante e antistituzionale", in quel "teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano", che costituisce il riferimento essenziale dell'elaborazione teorica di Capitini negli anni della Normale…

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per averci messo a disposizione questo intervento inviato come contributo scritto al convegno su "Nonviolenza e politica" svoltosi a Firenze il 5-7 maggio 2006. Maria G. Di Rienzo è una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Università di Sidney (Australia); è impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]


"Come fa questo criminale ad avere venti milioni di complici?". Con queste parole, ad un certo punto della notte del 10 aprile, una notte che abbiamo passato svegli ad interrogarci sul risultato delle elezioni politiche, il mio compagno ha messo il dito nella piaga.
Non è da oggi che rifletto sul consenso che circonda il dominio, ma ora sto concentrando la riflessione sul "fenomeno Italia", un fenomeno che per me ha i volti dei miei vicini di casa, del fruttivendolo e del vigile urbano, dell'impiegata all'ufficio postale e della giornalaia.
L'analisi per cui costoro avrebbero beneficiato a livello economico dei cinque anni di governo della destra è evidentemente fallace. Non fanno parte del ristrettissimo numero di benestanti che possono fare a meno di una sanità o di una scuola pubblica, di politiche eque sul lavoro, di servizi territoriali puliti ed efficienti. L'analisi per cui il voto alla destra sarebbe un voto "valoriale" è parimenti inadeguata: con il governo Berlusconi abbiamo assistito al picco di circa vent'anni di distruzione di senso comune e valori condivisi. L'Italia che ci si è mostrata nelle aule parlamentari e sui media è un'Italia rancorosa, ignorante, volgare, dispotica. Nè, rispetto alla regione in cui vivo, mi pare tenga la spiegazione relativa alle aree produttive del paese, che avrebbero votato a destra per garantirsi esigenze connesse a viabilità ed infrastrutture.

[Questo intervento di Gustavo Zagrebelsky è stato tenuto al convegno nazionale del Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) il 4 marzo 2005 e pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" sempre il 4 marzo 2005. Una versione più ampia è alle pp. 15-51 di Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma 2005]


Secondo un luogo comune, l'attaccamento alla democrazia si svilupperebbe da solo, causa ed effetto della democrazia stessa: tanta più democrazia, tanta più virtù democratica. Un circolo meraviglioso! La democrazia sarebbe l'unica forma di governo perfettamente autosufficiente, rispetto a ciò che Montesquieu denominava il suo ressort, la molla spirituale. Basterebbe metterla in moto, all'inizio; poi, le cose andrebbero da sè per il meglio.
Ebbene, a distanza di qualche decennio dalla Costituzione, uno scritto famoso di Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, 1984) tra le "promesse non mantenute" della democrazia indicava lo spirito democratico.
Invece dell'attaccamento, cresce l'apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l'assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto. È pur vero che la partecipazione può improvvisamente infiammarsi e l'indifferenza può essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in situazioni eccezionali. Sono però reviviscenze che non promettono nulla di buono. Gli elettori, eccitati, si mobilitano su fronti opposti per sopraffarsi, al seguito di parole d'ordine elementari: bene-male, amore-odio, verità-errore, vita-morte, patriottismo-disfattismo, ecc., cose che lestofanti della politica spacciano come rivincita dei valori sul relativismo democratico. Parole che potranno forse servire a vincere le elezioni ma intanto spargono veleni, senza che un'opinione pubblica consapevole sappia difendersi, dopo che la routine l'ha resa ottusa. Un difetto e un eccesso: l'uno indebolisce, l'altro scuote alle radici.
Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l'ethos della democrazia non si produce da sè. Monarchie, dispotismi, aristocrazie e repubbliche hanno avuto i loro pedagoghi: Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet, Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma ciò che qui importa, il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non è certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in democrazia. Naturale dunque è che si guardi alla scuola e al suo compito di formazione civile. Il decalogo che segue è una semplice proposta.
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